Api e cercopitechi, fra mente e linguaggio
Con questo Scandaglio cominciamo a parlare del libro Mente e linguaggio negli animali. Introduzione alla zoosemiotica cognitiva di Felice Cimatti, edito da Carocci.
Ci torneremo a più riprese. Tra etologia, linguistica e filosofia del linguaggio il libro è un’autentica miniera di informazioni interessanti, presentate in maniera chiara e sistematicamente accurata dal professor Cimatti.
Data la delicatezza degli argomenti trattati ‒ la facilità con cui si può incorrere in fraintendimenti di ogni sorta ‒, il professore si premura giustamente di definire o specificare le definizioni adottate per molti dei termini centrali della trattazione.
Mente e linguaggio sono spesso considerati tratti specifici e unici degli esseri umani. In questo libro proporremo una tesi diversa: la complessità dei sistemi di comunicazione degli animali non umani non si può spiegare se non assumendo che anche questi possiedano una mente.
Cosa significa avere una mente? Una prima definizione può essere la seguente: avere una mente implica, fra le altre cose, la capacità di i) guidare dall’interno il proprio comportamento, in base a progetti non direttamente connessi a quanto arriva dall’ambiente esterno, e ii) di trattare e trasformare delle rappresentazioni.
In generale una RAPPRESENTAZIONE MENTALE è una traccia interna di uno stimolo esterno, che può essere riattivata anche in assenza dello stimolo originario […]. Un esempio di rappresentazione interna sono le cosiddette MAPPE MENTALI, usate da molti animali per orientarsi nel proprio ambiente.
Di fatti, l’esempio proposto dal professor Cimatti e qui riportato è quello delle api, ma la specie animale presa in oggetto poteva benissimo essere un’altra (per esempio, i cervi). L’esperimento di cui si parla è stato effettuato da Gould nel 1986.
[U]n’ape viene addestrata a raggiungere il sito A, che si trova a 150 m a ovest dell’alveare. In un secondo momento l’ape viene catturata in volo mentre si dirige verso A, chiusa in una scatola e trasportata nel sito B, che si trova 160 m a sud dell’alveare (il sito A non è visibile da B). A questo punto l’ape viene liberata: verso quale direzione si dirigerà? Nell’ipotesi minima l’ape ha due possibilità: tornare all’alveare, basandosi su precedenti esperienze di volo da B a esso, oppure dirigersi verso A, anche se non ha mai percorso prima la rotta B-A. Di fatto l’ape vola verso A, basandosi su una conoscenza generale del territorio che circonda l’alveare. Una possibile rappresentazione grafica dell’esperimento di Gould
Continua Cimatti:
Questa conoscenza generale, la mappa cognitiva, permette all’ape di scoprire nuove rotte mai sperimentate in precedenza. Il comportamento dell’ape non è diretto dall’ambiente, e si basa su una rappresentazione interna dell’ambiente: in questo senso l’ape ha una mente. La mente, per come la stiamo definendo, non è una particolare sostanza, ma un insieme di abilità.
La possibilità da parte dell’ape di crearsi rappresentazioni interne le permette di fare delle cose che non farebbe se questa possibilità le fosse negata.
È particolarmente rilevante che questo comportamento non sia dettato (imposto) dall’ambiente esterno. Ovvero: non è una risposta automatica dell’ape.
Questo primo esempio introduce questa abilità rilevante: il poter avere rappresentazioni mentali. Ciò si inserisce in un quadro più ampio: il discorso portato avanti da Cimatti teso a contestare la possibilità che determinati comportamenti di determinati animali non siano altro che risposte automatiche all’ambiente esterno o a determinati stimoli interni.Ovvero, a due tesi collegate secondo cui un cane, per esempio, fa “wuof” quando è felice perché lo stimolo interno si traduce automaticamente nell’emissione di un segnale, e un cercopiteco (una piccola scimmia) lancia il segnale d’allarme relativo ai predatori aerei ogni qualvolta ne vede uno, in maniera irriflessa, secondo una distinzione classica tra “comporamento comunicativo, specificamente umano e VOLONTARIO e comportamento informativo-espressivo, tipico degli animali […] e INVOLONTARIO”.
Eppure, il comportamento dei cercopitechi sembra smentire nettamente che il comportamento comunicativo degli animali sia semplicemente involontario.
I cercopitechi per le loro piccole dimensioni sono quasi sempre costretti a fuggire alla vista di un predatore. Il loro comportamento comunicativo è estremamamente funzionale alla sopravvivenza: avvertirsi a vicenda ogni qualvolta si scorge un pericolo permette a tutti i membri della comunità di avere maggiori possibilità di evitare i pericoli.
I cercopitechi hanno tre segnali distinti per indicare i predatori aerei (come l’aquila), i predatori terrestri (come il giaguaro), i predatori terrestri che strisciano (come il pitone). Possiamo notare anzitutto che questi segnali sono caratterizzati da convenzionalità e arbitrarietà. Convenzionalità perché non c’è somiglianza “fra le caratteristiche sonore del segnale d’allarme e il suo referente”; per esempio, il segnale d’allarme per i predatori aerei non emula il verso dell’aquila. Arbitrarietà perché il significato associato a quel segnale è il risultato di un’operazione di classificazione, e qui torniamo a parlare di operazioni mentali: il segnale per i predatori aerei viene lanciato non solo per l’aquila ma per una certa gamma di “oggetti in certe situazioni”, ovvero quando il cercopiteco rileva (o crede di rilevare, perché può anche commettere degli sbagli) una situazione di pericolo proveniente dall’alto.
E ora vediamo alcuni dei motivi per cui non sembra possibile spiegare il loro comportamento comunicativo come involontario. Poniamo che ci sia un’aquila sopra la testa di un cercopiteco. Secondo la distinzione classica di cui sopra dovremmo aspettarci che il cercopiteco che la vede emetta sempre il segnale, perché il suo comportamento comunicativo è caratterizzato dall’involontarietà. Eppure:
– Un cercopiteco, se per qualche motivo è lontano da altri cercopitechi non emette il segnale. Perché, difatti, emetterlo se non ci sono altri cercopitechi che possono beneficiarne? In tal caso il cercopiteco correrebbe solo il rischio di segnalare la propria posizione al predatore.
– Un cercopiteco vede l’aquila, ma dato che vicino ha solo un altro cercopiteco (o due) di rango superiore al suo, non emette il segnale. Fila a nascondersi senza avvertire il suo simile. Se l’aquila dovesse colpire l’altro cercopiteco, quello di rango inferiore ne guadagnerebbe.
– I piccoli di cercopiteco commettono in queste situazioni “errori di ipergeneralizzazione (uso troppo esteso di un concetto) ossia utilizzano i segnali anche per indicare specie animali innocue”. Continua Cimatti “il fenomeno è del tutto analogo a quello per cui i bambini chiamano “palla” la luna basandosi sulla approssimativa ‘somiglianza’ percettiva fra le due entità”. Ciò è legato alla questione dell’apprendimento, che al momento tralasciamo, ma per usare una sgrammaticatura, in certi casi appare evidente che certi animali “non nascono imparati”.
– I cercopitechi non rispondono sempre allo stesso modo ai segnali d’allarme. L’emissione dei segnali e la loro ricezione varia a seconda del contesto, dell’ambiente e degli individui coinvolti nella comunicazione. Alcuni cercopitechi, per esempio, possono reagire non con la fuga ma osservando il cielo (e poi eventualmente fuggendo) se il segnale è stato emesso da un giovane che sbaglia con frequenza nel segnalare i pericoli.
Questo significa che lo stimolo esterno, l’aquila, non basta a spiegare il comportamento di questo animale, dal momento che in […] queste situazioni lo stimolo è invariato, mentre il comportamento muta. Di conseguenza il cercopiteco ha una mente.
Si potrebbe obiettare, tuttavia, che il comportamento del cercopiteco potrebbe dipendere da degli stimoli più complessi: in un caso l’aquila senza altri cercopitechi, in un altro l’aquila più dei cercopitechi di rango elevato ecc. In questo modo, immaginando tanti stimoli diversi quanti sono i comportamenti possibili di un animale, si evita di attribuirgli una mente. Il limite di questa strategia è che per non ammettere una regolazione interna e autonoma del comportamento deve far esplodere il numero degli stimoli esterni che lo guiderebbero, senza riuscire, tuttavia, a spiegare un’azione nuova e imprevista […]. Inoltre pare del tutto implausibile: come potrebbe avere imparato il cercopiteco a rispondere adeguatamente a tutti questi stimoli diversi, alcuni dei quali potrebbe averli incontrati una sola volta nella sua vita? […] Pare più semplice, e evolutivamente economico, dotare l’organismo di un sistema, la mente appunto, in grado di volta in volta di rispondere autonomamente alle sollecitazioni dell’ambiente esterno. In questo modo oltre alle risposte innate, per i casi fondamentali, ci sarà spazio per risposte più flessibili.
Come detto torneremo ancora sul libro di Cimatti, che consiglio caldamente a chiunque voglia esplorare il tema del linguaggio (con tutti gli annessi e connessi) negli animali. Il volume sarà inoltre il protagonista del prossimo giveaway del blog!
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