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MarcoDegli

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Uomo contro insetto: la disinfestazione

Forse, dobbiamo accettare che c’è del giusto nelle affermazioni di chi sostiene che, malgrado I nostri evidenti successi nel diffonderci su tutto il pianeta e prosperare, non siamo noi in realtà la specie dominante del nostro biosistema. E dietro queste affermazioni non ci sono, si badi bene, criteri etici o filosofici, sui quali si potrebbe lungamente disquisire in altre sedi più adatte, ma puramente dati numerici e molto obiettivi – che sono sufficienti a fare vacillare, se non a distruggere, il nostro presunto primato.

E uno dei più significativi e sconvolgenti, fra questi dati, riguarda precisamente gli insetti. Un mondo sterminato, come capiamo anche istintivamente nel momento in cui pensiamo che sono insetti le farfalle che guardiamo ammirati, le mosche che ci infastidiscono, le api che impollinano i fiori, ma anche le zanzare che ci tormentano in estate, le formiche con la loro incredibile organizzazione, i moscerini che scacciamo dai nostri frutteti… un mondo che conta un milione circa di specie catalogate, e – pensano gli entomologi – forse altrettante ancora da individuare. E una presenza così massiccia, a così stretto contatto, non può che dar luogo a quella lotta che chiamiamo disinfestazione.

Se vogliamo darne una definizione precisa, la parola “disinfestazione” indica l’eliminazione, o almeno la riduzione, del numero dei parassiti e dei danni da essi causati. Non è difficile capire, se ripensiamo ai numeri di cui parlavamo poco fa, e se ragioniamo su come gli insetti siano di fatto diffusi – nelle coltivazioni, nelle industrie, nelle case – che avviare delle azioni contenitive della loro presenza è inevitabile.

Tre sono le fasi di una disinfestazione condotta professionalmente. La prima è quella del monitoraggio, ed è fondamentale per garantire l’efficacia dell”intero procedimento. Si compone di tre parti:

1. lo studio dell’ambiente: per realizzare la disinfestazione, è essenziale considerare attentamente dove essa andrà condotta, e soprattutto definire accuratamente la gravità del problema (la “pressione d’infestazione”, con termine tecnico);

2. la misurazione dei parassiti presenti; vista la straordinaria varietà d’insetti cui abbiamo accennato, è evidente come sia essenziale conoscere bene quali stiano infestando il nostro ambiente per organizzare un’eliminazione efficace;

3. programmazione della lotta; dopo avere radunato tutti I dati che abbiamo appena elencato, si può finalmente passare al momento della progettazione delle azioni da effettuare, con un duplice scopo: anzitutto, naturalmente, l’eliminazione del maggior numero ragionevole di parassiti, e secondariamente – fase fondamentale – il mantenimento di una condizione libera da insetti nel futuro, limitandone l’arrivo o la proliferazione con azioni specifiche, ad esempio di pulizia o di erezione di barriere.

Una volta effettuata la pianificazione, si passa com’è naturale all’esecuzione del programma delineato antecedentemente, mettendo in opera le tecniche e i mezzi adeguati, calibrati sia alla gravità del problema in essere che sulle specifiche esigenze dell’ambiente (in una coltivazione in campo aperto, è irrealistico, e non necessario, sforzarsi di portare a zero il numero di insetti presenti, dato che una protezione totale non è in alcun modo pensabile. D’altro canto, all’interno degli impianti di un’industria alimentare, è richiesta e necessaria un’eliminazione globale di ogni esemplare di insetto.)

Ottenuto il risultato desiderato, scatta la terza fase: un attento mantenimento delle condizioni raggiunte, tramite accurato monitoraggio dei risultati, basilare anche per ottenere le eventuali certificazioni richieste in determinati ambiti operativi.

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Diritti dei disabili: quanto c’è ancora da fare!

Esiste una battaglia spesso silenziosa, ma costante, che pervade tutta la nostra società, e che è animata da un movimento elevato e doveroso: la spinta a far sì che, davvero, a tutti i cittadini siano riconosciuti non solo dei diritti teorici, ma la opportunità pratica di usufruirne. Nello specifico, stiamo parlando del riconoscimento dei diritti dei disabili: e il loro riconoscimento non è una mera questione di installazione di montascale o rampe d’accesso, pur indubbiamente necessari, ma è in realtà un fatto di modo di pensare.

A dover mutare e trasformarsi, in modo profonda e radicale, è in realtà l’ottica quotidiana con cui ci poniamo verso la questione: un’evoluzione di cultura che va a toccare abitudini e meccanismi spesso radicati in maniera profonda, talora difficili da riconoscere e percepire. Il ragionamento che applichiamo normalmente, infatti, è animato da ottime intenzioni : “I disabili si trovano, a causa degli handicap di cui soffrono, a vivere spesso difficoltà e sostenere fatiche e complicazioni che non capitano alle persone fisicamente sane. Per ripagarli di tali sofferenze, è giusto dare loro qualche agevolazione.”

Non sembra errato, non è vero? Anzi, ci appare come un’ottima visione del mondo, generosa verso i più deboli, giusta, e che alla fine ci costa poco: qualche intervento architettonico, qualche parcheggio dedicato, qualche segnalatore sonoro ai semafori. Purtroppo, è una visione comoda ma in realtà assai ingiusta, e perfino superba. La questione infatti viene posta nei termini sbagliati: non si tratta di offrire conforto, o di accordare favori, o di ripagare sofferenze a chi soffre di invalidità: si tratta di realizzare le condizioni fondamentali della società civile.

Quella che invece dovremmo fare nostra è una visione del problema molto diversa, che non vuole apparire – nè è, praticamente – generosa , nobile o buona, potrebbe essere ben rappresentata da un ragionamento di questo tipo: “La nostra società si può dire davvero civile se, fra le altre cose, è in grado di promettere a tutti i suoi cittadini, indistintamente, un godimento reale dei diritti ritenuti irrinunciabili. In quale modo è ragionevole, quindi, assicurare tale dovuta fruizione di diritti e servizi anche a quei cittadini che si trovino a essere ostacolati da qualche tipo di disabilità o handicap?”

Possono sembrare discorsi simili: ma benchè in effetti lo diventino a livello di conseguenze, poichè l’uno e l’altro portano – ad esempio – ad un meticoloso e serio lavoro di ricerca, riconoscimento e abbattimento delle più varie tipologie di barriere architettoniche, la diversità di prospettiva è non soltanto non insignificante, ma addirittura essenziale. Non si tratta, infatti, di una facilitazione, di un regalo, bensì di un rigoroso dovere civile, perchè non stiamo facendo concessioni a degli sfortunati, ma stiamo semplicemente rendendo autenticamente di tutti i diritti che proclamiamo essere tali.

Se quindi, domattina, avremo qualche difficoltà a trovare un posto per parcheggiare la nostra auto, e ci verrà spontaneo un moto di stizza nel vedere inoccupato il posto riservato ai disabili, o ancora se ci infastidirà vedere sommare alle tante spese del nostro condominio quella per sostituire gli ascensori in modo che possano accogliere le sedie a rotelle, ricordiamolo: non stiamo facendo concessioni, ma stiamo – coerentemente – comportandoci da persone civili..

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Le porte interne: un prezioso elemento d’arredo

Di quanti elementi è composta una casa – e come sono tutti importanti nel renderla bella e confortevole per chi vi abita! Elementi costruttivi ed elementi decorativi: scelte di colori, scelte di materiali, illuminotecnica… tutti piccoli pezzi che fanno in modo che un’abitazione possa divenire effettivamente “casa”. E fra questi è purtroppo spesso sottovalutato, senza un giusto motivo, un elemento importantissimo, che unisce aspetti funzionali ed estetici: quello delle porte in legno. Se infatti l’evoluzione tecnologica, con quella del buongusto e del design, ha diffuso nell’arredo molteplici altri materiali, molti dei quali hanno conquistato grande successo, è comunque vero che nessuno di questi è riuscito a strappare al legno la sua condizione preferenziale come materiale per le porte di buon livello. Per arredatori e architetti, le scelte legate alle porte sono moltissime, se preferirle a battente o scorrevoli, quale colore e finitura dare, se introdurre vetrate artistiche: ma a non essere mai in dubbio è la regola che non ci siano materiali migliori, per bellezza e valore, del legno, di qualsiasi essenza, per costruire una buona porta interna. Se tanta attenzione viene giustamente data quindi alla scelta accurata di ogni aspetto del proprio arredo, quindi, altrettanta è giusto darne alla scelta delle proprie porte interne. I criteri applicabili sono parecchi e diversi, come per tutti gli altri aspetti dell’arredamento di una casa; affidandosi però al parere e all’esperienza di chi si occupa ogni giorno di porte da un punto di vista professionale, se ne possono individuare alcuni obiettivi, che possono fungere efficacemente da base per una scelta competente e ragionata: sono basati su una analisi precisa di cosa sia una porta, per stabilirne le caratteristiche che possono dettarne l’eccellenza.Partiamo dal presupposto che, come prima cosa, una porta sia un elemento d’arredo che, a differenza di altri, si ripete identico, sovente in parecchi esemplari, all’interno della casa. Questo rende necessario che la porta sia bella. E benché, ovviamente, il gusto estetico sia un fatto squisitamente particolare, esistono certamente criteri obiettivi – come il mantenimento in tutte le porte della casa dello stesso punto di colore del legno, e dell’identica fiammatura – che dimostrano come la porta sia stata prodotta non in serie, per essere conservata in magazzino, ma per un progetto preciso, e con un elevato livello di qualità – e appunto, di bellezza. Un secondo criterio che sovente viene sottovalutato ha invece a che vedere con l’aspetto funzionale della porta, intesa come oggetto che svolge il lavoro, non leggero, di aprirsi e chiudersi migliaia di volte. Una porta cigolante, che sveglia tutti gli abitanti della casa se aperta durante la notte, o una porta che si incastra nei battenti perché si gonfia con l’umidità, o ancora una porta che non rimane chiusa bene e si apre alla minima raffica di vento, sono tutti elementi di microstress che, nella nostra casa, non dovrebbero essere presenti. È necessario che una porta funzioni in maniera impeccabile, sempre, e quindi che sia confortevole. Terzo e ultimo elemento di valutazione, da non confondere con il precedente, è infine il criterio di solidità. Un segno inconfondibile di una porta di scarsa qualità è quello di essere realizzata con materiali scadenti, più leggeri, proni a espandersi per l’umidità, al deformarsi con il tempo, a creparsi. Una porta di elevata qualità, invece, è costruita solo con materiali di prima scelta, come il listellare di legno massiccio, che la rende di una solidità a tutta prova.

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Diritti: il riconoscimento della disabilità e l’importanza della scuola

Il 30 marzo del 1971; nel lungo e complesso percorso, spesso tortuoso, del riconoscimento di pieni diritti a chi si trova a soffrire di una disabilità, questa data ha una valenza fondamentale come punto di arrivo di da un lato e punto di partenza dall’altro. In tale data infatti fu approvata dalle Istituzioni l’importantissima legge 118 sull’invalidità civile: e ciò fu, come dicevamo, punto d’arrivo per il movimento di coscienza e consapevolezza che si era andato sviluppando, ad opera di volontari e famiglie coinvolte, nel decennio precedente riguardo alla cultura stessa dell’handicap, e allo stesso tempo punto di partenza per la nascita di una rete di servizi e realtà di assistenza a chi da tali handicap fosse colpito, direttamente come il disabile, o indirettamente come la sua famiglia.
Se vogliamo poi analizzare come questo nuovo sviluppo si articolò, non possiamo prescindere da un suo fondamentale momento, reso possibile appunto dalla legislazione approvata, ma reso reale e concreto dal lavoro paziente di istruzione e diffusione culturale di schiere di volontari impegnati in prima persona: e parliamo del momento in cui gli operatori della riabilitazione si mossero, uscendo dall’ambito medico di ospedali e ambultori, per prendere contatto con un mondo che, purtroppo, fino ad allora era loro precluso: quello della scuola. Una preclusione attiva, quasi spaventata, da parte della scuola – e una preclusione di cui possiamo e dobbiamo ricercare le cause in una fondamentale mancanza di cultura, che faceva percepire la disabilità come un problema estraneo e distante. Occorsero, per sconfiggere tale mentalità, inserimenti forzati e pressanti, da più parti definiti addirittura come selvaggi.
C’è dunque del vero nell’osservazione, talvolta addirittura nell’accusa, che l’introduzione del concetto di recupero della disabilità nelle scuole fu effettuata con una forzatura? Purtroppo, almeno in parte, bisogna ammettere che la definizione, pur essendo piuttosto forte e forse eccessiva, non è scorretta: i ritmi furono ben più sostenuti di quanto paresse raccomandabile, e il tempo lasciato a strutture ed insegnanti per prepararsi ad accogliere studenti con problemi per loro totalmente nuovi fu sicuramente poco. Va però osservato anche che, senza tale “forzatura”, probabilmente non avremmo avuto, nel giro di pochi anni da quel momento, la legge 5/7, l’inserimento di grandi numeri di insegnanti di sostegno preparati e motivati, e in generale tutte le iniziative che fanno delle nostre scuole ambienti assolutamente all’avanguardia per l’integrazione e il recupero dei disabili.
E non bisogna commettere l’errore di sottovalutare l’importanza dell’ambito scolastico nella realizzazione del percorso di cui parliamo, quello che conduce ad una maggior equità di diritti per tutti i cittadini, sani e disabili allo stesso modo. In ogni classe in cui studiano, insieme ai loro coetanei, alcuni delle centinaia di migliaia di studenti disabili di tutte le età del Paese, dalle aule della scuola primaria a quelle delle superiori, il sostegno operato dalle istituzioni permette la nascita di un confronto importante e fertilissimo, positivo per tutte le parti in causa. Da un lato, infatti, chi della disabilità non ha esperienza, e spesso formula giudizi preconcetti o dettati dal timore, ha modo di sviluppare una nuova consapevolezza e un nuovo rispetto; dall’altro, chi vede i suoi sforzi premiati con un superamento delle difficoltà imposte dalla propria disabilità sviluppa maggiore fiducia nel futuro e nelle proprie reali possibilità.

 

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Diritti dei disabili: un percorso, non un evento

Gli ultimi decenni di storia italiana sono attraversati, fra tanti altri, da un percorso che si snoda tortuoso fra difficoltà, azioni, passi indietro e prese di coscienza: è un percorso che riguarda centinaia di migliaia di persone, di cittadini, e la loro possibilità di partecipazione reale ad una vita quotidiana, sia personale che effettivamente civile, che è loro pieno diritto. Le persone di cui stiamo parlando sono i disabili di ogni tipo ed età, e il percorso a cui stiamo facendo riferimento è quello che conduce ad una piena e soddisfacente attuazione di tutti i loro diritti in tutti gli ambiti della vita. Di questa lunga storia, di questo percorso che è ancora in corso e certo non può dirsi in alcun modo concluso, riteniamo sia giusto parlare.
Non ci sono infatti dubbi ed esitazioni, all’interno della nostra Carta Costituzionale, riguardo al fatto, esplicitamente chiarito, che la condizione di cittadinanza preveda, per la sua stessa natura, un serie di diritti essenziali, come quello alla salute, alla socialità, all’istruzione e al lavoro. E com’è naturale, prevede che questi diritti siano estesi a tutti i cittadini, quindi anche a coloro che si trovino ad essere colpiti da una qualche disabilità. Possiamo trovare un inizio ideale del percorso teso a rendere possibile e reale questo dettato costituzionale in una presa di coscienza essenziale, avvenuta intorno al chiudersi degli anni sessanta del ventesimo secolo. In quel momento storico così vitale, i disabili italiani e le loro famiglie si resero conto di due fatti essenziali: di vivere un’emarginazione di fatto, e del dovere delle istituzioni di porvi fine.
Un cambiamento come questo, un percorso tanto complesso, è da riconoscere come merito, prima di tutto, delle associazioni dei disabili e di quelle che riuniscono i loro familiari: da loro venne quella spinta continua necessaria a creare mutamento sia sul piano istituzionale che su quello quotidiano. Se è infatti evidente come il primo sia necessario, in quanto è su quel livello che vengono approvate le leggi necessarie alla tutela di una categoria così particolare di persone, è solamente sul secondo livello, quello del quotidiano e delle comunità effettive, che si possono verificare quei cambiamenti di pensiero e comportamente che davvero generano un miglioramento delle reali condizioni di vita dei disabili all’interno della società. E a rendere possibili tali cambiamenti fu, ed è, l’azione continua e paziente di schiere di insegnanti, volontari, rappresentanti sindacali.
Mercoledì 31 marzo del 1971: volendo trovare una data precisa in cui collocare uno dei primi grandi trionfi di questo movimento civile, questa è adattissima. Fu in quel giorno che venne approvata una legge fondamentale, la 118, sull’invalidità: e fu la legge 118 a rendere possibile lo sviluppo di una vasta rete di servizi di riabilitazione e assistenza alle famiglie colpite dal problema della disabilità. Con tale avvenimento nacque il concetto che la riabilitazione medica, per quanto possibile, del disabile, fosse sì importante ma non sufficiente; e che a dare valore allo sforzo e al lavoro congiunto del disabile e dell’operatore per recuperare quanto più possibile movimento, comprensione e abilità fosse una preliminare, e doverosa, reintegrazione del disabile come elemento positivo del tessuto sociale.

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Barriere architettoniche: un ostacolo alla vita, un ostacolo alla civiltà

Di chi è il mondo?
A sentirla, può parere una domanda perfino sciocca, e se non altro, quantomeno molto provocatoria: ci viene insegnato, e tutti siamo convinti, che il mondo sia di tutti, e che questo sia uno dei punti forti della nostra civiltà. Quindi abbiamo ben saldo il concetto di come le strade, gli edifici pubblici, le strutture che erogano servizi utili e necessari siano, appunto, di tutti quanti, proprio perché tutti ne devono poter usufruire con semplicità; e riteniamo – a ragione – che la misura in cui rendiamo tali realtà partecipate da tutti sia un buon indicatore del nostro livello di civiltà.
Ma la risposta non è ovvia come ci piacerebbe che fosse: per rendercene conto basta mezz’oretta di sincera osservazione, condotta con occhi aperti e obiettività, del reale stato delle cose. E questa osservazione ci renderà probabilmente un po’ meno tranquilli e convinti, ma sicuramente un po’ più consapevoli: perchè ci farà scoprire che, al di là dei proclami che anche sinceramente siamo portati a fare, il mondo così com’è appartiene spesso a chi è giovane, a chi è sano, a chi non ha alcun tipo di problema fisico o handicap; ma per il numero vastissimo di persone che non ha questa fortuna, per chi è anziano, per chi è malato, per chi è disabile, insomma per chi non ha pienezza delle forze e della salute, il percorso del mondo è pieno di ostacoli, di barriere, non solo metaforiche ma anche reali, concrete. E da questo nasce l’esigenza di ragionare seriamente sull’abbattimento barriere architettoniche.
Partiamo, come è buona norma fare di fronte ad un problema complesso, dal comprenderlo: per abbattere le barriere architettoniche dobbiamo sapere cosa siano in effetti. Esiste, per fortuna, una definizione molto chiara e comprensibile di questo termine, che ci insegna che “una barriera architettonica è qualsiasi elemento costruttivo che impedisca, limiti o renda difficoltosi gli spostamenti o la fruizione di servizi”. Purtroppo, tuttavia, la definizione non fa molto per darci la prospettiva necessaria per trovare tali ostacoli, se ragioniamo come persone che camminano speditamente, hanno buona vista, e sono sane e in forze. Se invece immaginiamo di muoverci nel mondo senza poter vedere, o seduti su una sedia a rotelle, le cose cambiano immediatamente, e scopriamo tante cose – una semplicissima scala di tre gradini, una rampa ripida, un bancone troppo alto – che diventano barriere insormontabili.
Ma domandiamoci per un istante il perchè di tutto questo. In realtà, la ragione della complessità del problema non è difficile da identificare, e risiede nel fatto che non sono gli oggetti, di per sè, ad essere “sbagliati” o problematici; a renderli tale è la natura dell’handicap di chi può trovarseli davanti lungo il percorso. Se siamo su una sedia a rotelle, superare anche solo quei tre gradini è un’impresa titanica, o impossibile; se siamo ipovedenti o addirittura ciechi, attraversare la strada in corrispondenza di un semaforo senza indicatore acustico è un reale rischio di vita. Per tale motivo, non ci son liste di oggetti “sbagliati” o soluzioni semplici da applicare; ad essere necessaria è un profonda e continua riflessione su cosa sia o possa essere “ostacolo” per il legittimo fruitore di un servizio o visitatore di un edificio, per rimuovere tali barriere dove già ci siano ed evitare di costruirne di nuove.

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Vacanze e cultura? Paestum!

Una vacanza è riposo e insieme occasione di imparare – e alloggiando in un Hotel a Paestum, è possibile immergersi nella storia antichissima del gioiello del Cilento!

Il sito dove sorgono oggi le rovine di Paestum, infatti, ha una tradizione abitativa lunghissima – è stato certamente sede di tribù ominidi e umane fin dall’epoca preistorica. Ne sono testimonianza resti di capanne e manufatti ritrovati dagli archeologi, che sono sicuramente databili all’età paleolitica e che attestano quindi l’antichità dell’insediamento. Risulta probabile che, all’epoca, sorgessero in realtà addirittura due piccoli villaggi, uno su ciascuna della alture che ora sono coronate dalla Basilica e dal Tempio di Cerere.
Ci mancano invece dati precisi sull’effettiva fondazione della città le cui rovine oggi noi possiamo ammirare a Paestum: le fonti storiche antiche, tuttavia, ci danno ragione di ritenere che sia stata operata da una minoranza di Dori scacciati dalla colonia greca di Sibari dalla maggioranza Achea, circa 2600 anni fa. La città doveva essere nodo di intensi scambi commerciali con i greci, i latini, e gli etruschi, ed aveva allora il nome di Poseidonia. Dal 560 al 440 a.C. si colloca, con ogni probabilità, il periodo di più alto splendore e potenza della città, che vide l’erezione dei tre templi che ancor oggi ammiriamo quasi intatti.

Poseidonia mutò nome in Paistom, circa un secolo più tardi; la causa inattesa di tale cambiamento fu un più generale mutamento della classe dirigente della città, che cessò di essere Greca e divenne Lucana. Si tratta di un avvenimento per nulla raro, all’epoca, per le città della Magna Grecia: queste assorbivano la popolazione locale Italica come forza lavoro di basso grado e successivamente la vedevano scalare i gradini gerarchici arricchendosi con i commerci, fino a conquistare le posizioni di comando. La stessa ventura capitò a Neapolis, la città che si è poi evoluta nella nostra odierna Napoli. Non si pensi ad ogni modo che a tale cambiamento si sia accompagnata una crisi; al contrario, la città prosperò più che mai, nei commerci e nella produzione agricola, come testimoniato dalla ricchezza senza precedenti delle sepolture affrescate, e dal livello artistico elevatissimo dell’artigianato.
Nel 273 avanti Cristo, la nostra città visse l’ultimo, grande cambiamento di nome e di governo. Ebbe il nome che conosciamo, quello di Paestum, e a darglielo fu Roma, che la sottrasse alla Confederazione Lucana. In questo modo acquisì un’importante posizione come cantiere navale – fu Paestum a fornire la flotta per la prima Guerra Punica all’Urbe – e diritti raramente concessi, uno fra tutti quello di coniare moneta. Sotto l’influenza Romana furono eretti quei grandi edifici pubblici – il Foro, il santuario della Fortuna Virile, l’anfiteatro che oggi è dimezzato dalla S.S. 38 – che ancora oggi sono visitati e apprezzati da studiosi e turisti di tutto il mondo.

 

 

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Addome abbondante? c’è la liposuzione

Dimagrire non è la stessa cosa per tutti: ci sono importanti differenze e distinzioni da fare. Se infatti pensiamo a chi è afflitto da un’obesità più o meno grave, e deve perdere peso in maniera generale, per non sovraccaricare il suo sistema cardiocircolatorio, allora vedremo nella dieta e nella ginnastica i migliori strumenti a sua disposizione per ristabilire il proprio peso forma. Ma se invece pensiamo a chi ha un accumulo di grasso localizzato e tenace – pensiamo ad esempio a quello sull’addome, la classica “pancetta”, tanto diffusa fra le donne e ancor di più fra gli uomini – allora ci troviamo di fronte ad una necessità differente, che è purtroppo molto refrattaria alle soluzioni naturali come le diete e la ginnastica, e richiede altre strade per ragioni molto precise:

– tempo: un dimagrimento estetico vuole essere rapido: i risultati ci servono subito – da subito vogliamo apparire più gradevoli alle persone che ci circondano – e i tempi di una dieta o della ginnastica sono invece di settimane, o anche di mesi;
– praticità: non bisogna confondere la perdita di peso in generale, o dimagrimento, con quella invece localizzata in un punto specifico del corpo. Per la prima possono bastare, specie nei casi non troppo gravi, un buon regime di esercizio fisico ed una dieta bilanciata e misurata; prima o poi, i risultati si faranno vedere, mano a mano che le scorte in eccesso del corpo vengono consumate. Ma la seconda è molto più difficile da ottenere, specie per il profano, soltanto con la ginnastica o la dieta;
– possibilità; non dimentichiamo che il grasso accumulato sull’addome ha una tenacia ben maggiore di quella di altre zone d’accumulo adiposo, e spesso la dieta e la ginnastica semplicemente non possono bastare ad eliminarlo. Basti pensare a quante persone non hanno altri problemi di peso… ma hanno quella che chiamiamo “pancetta”.

Come è possibile dunque, se la zona addominale è tanto ostica da trattare, riuscire a perdere peso in maniera localizzata e risolvere i propri problemi di silhouette? Al momento, la tecnica migliore e più gettonata pare proprio essere quella della liposuzione addominale.

– rapidità: chi ricorda il decorso post-operatorio lungo e sgradevole dei vecchi interventi di liposuzione avrà una gradevole sorpresa nello scoprire che le moderne teniche operatorie permettono un pieno recupero dell’attività del paziente dopo soltanto un paio di giorni;
– armonia: forse sarebbe più corretto parlare addirittura di liposcultura, piuttosto che di semplice liposuzione dell’addome, perchè tale è il risultato delle tecniche d’intervento moderne: l’operatore non si limita ad asportare grasso, ma modella effettivamente il corpo e la silhouette del paziente in una forma più gradevole e armoniosa;
– definitività; il normale processo di dimagrimento consiste nell’eliminare il grasso; la liposuzione dell’addome invece ha il vantaggio aggiunto di distruggere le cellule che saturandosene creano cuscinetti ed accumuli, ossia gli adipociti. In questo modo il futuro recupero di peso da parte del paziente, e soprattutto l’accumulo di grasso nella zona addominale, si fa molto meno probabile e più semplice da evitare.}

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