Il 30 marzo del 1971; nel lungo e complesso percorso, spesso tortuoso, del riconoscimento di pieni diritti a chi si trova a soffrire di una disabilità, questa data ha una valenza fondamentale come punto di arrivo di da un lato e punto di partenza dall’altro. In tale data infatti fu approvata dalle Istituzioni l’importantissima legge 118 sull’invalidità civile: e ciò fu, come dicevamo, punto d’arrivo per il movimento di coscienza e consapevolezza che si era andato sviluppando, ad opera di volontari e famiglie coinvolte, nel decennio precedente riguardo alla cultura stessa dell’handicap, e allo stesso tempo punto di partenza per la nascita di una rete di servizi e realtà di assistenza a chi da tali handicap fosse colpito, direttamente come il disabile, o indirettamente come la sua famiglia.
Se vogliamo poi analizzare come questo nuovo sviluppo si articolò, non possiamo prescindere da un suo fondamentale momento, reso possibile appunto dalla legislazione approvata, ma reso reale e concreto dal lavoro paziente di istruzione e diffusione culturale di schiere di volontari impegnati in prima persona: e parliamo del momento in cui gli operatori della riabilitazione si mossero, uscendo dall’ambito medico di ospedali e ambultori, per prendere contatto con un mondo che, purtroppo, fino ad allora era loro precluso: quello della scuola. Una preclusione attiva, quasi spaventata, da parte della scuola – e una preclusione di cui possiamo e dobbiamo ricercare le cause in una fondamentale mancanza di cultura, che faceva percepire la disabilità come un problema estraneo e distante. Occorsero, per sconfiggere tale mentalità, inserimenti forzati e pressanti, da più parti definiti addirittura come selvaggi.
C’è dunque del vero nell’osservazione, talvolta addirittura nell’accusa, che l’introduzione del concetto di recupero della disabilità nelle scuole fu effettuata con una forzatura? Purtroppo, almeno in parte, bisogna ammettere che la definizione, pur essendo piuttosto forte e forse eccessiva, non è scorretta: i ritmi furono ben più sostenuti di quanto paresse raccomandabile, e il tempo lasciato a strutture ed insegnanti per prepararsi ad accogliere studenti con problemi per loro totalmente nuovi fu sicuramente poco. Va però osservato anche che, senza tale “forzatura”, probabilmente non avremmo avuto, nel giro di pochi anni da quel momento, la legge 5/7, l’inserimento di grandi numeri di insegnanti di sostegno preparati e motivati, e in generale tutte le iniziative che fanno delle nostre scuole ambienti assolutamente all’avanguardia per l’integrazione e il recupero dei disabili.
E non bisogna commettere l’errore di sottovalutare l’importanza dell’ambito scolastico nella realizzazione del percorso di cui parliamo, quello che conduce ad una maggior equità di diritti per tutti i cittadini, sani e disabili allo stesso modo. In ogni classe in cui studiano, insieme ai loro coetanei, alcuni delle centinaia di migliaia di studenti disabili di tutte le età del Paese, dalle aule della scuola primaria a quelle delle superiori, il sostegno operato dalle istituzioni permette la nascita di un confronto importante e fertilissimo, positivo per tutte le parti in causa. Da un lato, infatti, chi della disabilità non ha esperienza, e spesso formula giudizi preconcetti o dettati dal timore, ha modo di sviluppare una nuova consapevolezza e un nuovo rispetto; dall’altro, chi vede i suoi sforzi premiati con un superamento delle difficoltà imposte dalla propria disabilità sviluppa maggiore fiducia nel futuro e nelle proprie reali possibilità.