Dal catalogo della Caravaggio Editore
www.caravaggioeditore.it
ISBN 9788895437279
Autore: Paolo Manetti
Collana: Dissertatio
Genere: Aforismi e altri scritti
Pagine: 76
Uscita libro: Febbraio 2009
Descrizione: Più grande è il poeta, più è evidente l’impotenza dell’uomo, perché la sua opera chiarisce in modo insostenibile “che non si può”, che ci è negato il vero fare, che è concessa solo l’apparenza del fare.
Prezzo di copertina: 10,00 €
Paolo Manetti è nato e vive a Firenze. Ha pubblicato: La spola umana, Pisa, Biblioteca dell’Ussero, 1973; Vitam Imprendere Amori di G. Apollinaire, Biblioteca dell’Ussero, 1974; Sul metodo della Metamorfosi, Firenze, Vallecchi, 1975 (Premio Il Ceppo Proposte); Il Pomeriggio d’un fauno di S. Mallarmé, Torino, Einaudi, 1976; Storia di Oleron, Firenze, Vallecchi, 1978; Il Matrimonio del Cielo e dell’Inferno di W. Blake, Vallecchi, 1979 (Premio Casentino 1979 per l’inedito “Teoria della materia”); Disegni o della ragione minima, Vallecchi, 1980; Mallarmè in Italia e altri scritti, Vallecchi, 1984; I luoghi delle parole. Scritti sulla ragione poetica, Vallecchi, 1986; Lettera efesia, Firenze, Passigli, 1994 (Premio di poesia Contini-Bonacossi 1996); Autunno del Minotauro, Firenze, Passigli 2003; Lunario di molte vite, Lanciano, Carabba 2005. Con Caravaggio Editore ha pubblicato, nel 2009, I Taccuini di Ulisse. Aforismi e altri scritti.
LE PAROLE DELLA CRITICA:
La parola di Manetti si è venuta ritagliando, nei decenni, una couche decisamente appartata all’interno del molteplice fluire della lingua poetica novecentesca; del quale essa costituisce tuttavia una sorta di non esibito ma deciso controcanto. Proprio questa qualità di contrappunto, mentre in qualche misura la preserva dal confondersi nella koiné linguistica e immaginativa del nostro tempo (e in ciò è da scontare, forse, anche una riservatezza, persino una scontrosità e un gusto per la solitudine appartata che le derivano dalla disposizione esistenziale dell’auctor), ne fa al tempo stesso il sismografo acutissimo di quella sorta di tragico interdetto su cui si è fondata la sensibilità – e, direi, la marca distintiva – del moderno e che la contemporaneità ha vanamente e in tutti i modi cercato di annullare o superare. Quel vizio d’origine, quello scollamento irriducibile tra l’aspirazione a un destino maggiore riservato all’uomo e la coscienza della sua completa marginalità hanno continuato ad agire anche quando si è creduto di poterli occultare tra le pieghe di una tensione sublime verso l’oltranza, o – all’opposto – riducendo drasticamente il campo visuale a quanto di immediatamente tangibile fosse concesso alle capacità percettive e cognitive dell’uomo. In entrambi i casi – e nelle molteplici stazioni intermedie – il persistere anche solo di una increspatura del percorso, il senso della contraddittorietà, la percezione – magari oscura – del continuo allontanarsi dell’oggetto della tensione (o del suo improvviso sfaldarsi quando pareva lì, a portata di mano), tutto ciò rivela a chiare lettere come nella poesia della contemporaneità resti ben saldo un dubbio originario, il quale anzi ha finito per essere la marca costante e cometa scaturigine continua del suo stesso farsi e del suo stesso costruirsi come movimento. Così dell’auspicio con cui Montale chiudeva la dura ricognizione del mondo e del destino umano al termine degli Ossi di Seppia («cangiare in inno l’elegia; rifarsi; non mancar più») solo una parte avrebbe conosciuto consistenti tentativi di attuazione, quella relativa al superamento dell’autocompianto regressivo; mentre l’inno – il canto pieno di gioiosa aderenza – era destinato a rimanere completamente al di fuori dall’orizzonte e dai registri operativi della lingua novecentesca.
Manetti si inserisce da subito nell’agone poetico restando ben distante da quell’auspicio montaliano; in lui la prospettiva dell’inno è immediatamente cancellata dalla consapevolezza che o la parola poetica è in grado di costruire in sé un’alternativa sublime alla negatività del mondo, quello che resta altro non è che la minuta registrazione dell’insensato procedere delle cose, di una dura essenza materiale all’interno della quale il destino umano non ha vera funzione o specificità che lo differenzi da quello di ogni altra creatura – animale e vegetale o fossile che sia – di elemento in certo modo meccanico all’interno della catena divorante stabilitasi da sempre e per sempre tra essere e divenire. Storia di Oleron (1978) e Teoria della Materia (1980), i testi del suo esordio separati e insieme uniti dall’intermezzo più raccolto e apparentemente casuale di Disegni o della ragione minima (1980), sperimentano queste uniche possibilità. E lo fanno con scelte linguistiche e marcature stilistiche fortemente differenziate: alla nettezza di contorni del secondo, che mette in scena con apparente asettica distanza la consistenza puramente materia del mondo, eliminato ogni alone, spento ogni riverbero di qualsiasi divinità che non sia la pura necessità, si contrappone in un certo modo la ricchezza metaforica e la sperimentazione stilistico-immaginativa del primo. E su questo punto conviene forse soffermarci un poco per notare come anche a tale livello Manetti intrecci i propri percorsi con quelli a lui contemporanei, ma quasi con una tensione eversiva, da controcanto appunto. In Storia di Oleron, allora, può anche agire una qualche suggestione della messa in crisi del linguaggio e delle sue strutture operata in quegli anni dalla neoavanguardia e dalla teoremi della linguistica strutturale; ma, al tendenziale asemantismo e al clima da «morte della poesia» impliciti in quelle, egli contrappone la tensione verso una semanticità assoluta, di natura decisamente simbolica, che affonda le proprie origini e trova le proprie ragioni piuttosto nell’azzardo mallarmeano che non nella linea del piccolo cabotaggio realistico rivendicata da Sanguineti e da lui formalizzata – tra l’altro – nella sua Poesia italiana del novecento. Ma non è da pensare che, con ciò, il poeta fiorentino si costruisca una couche, una sorta di zona franca protetta dalle insorgenze e dalle minacce del mondo, in cui dare libero corso al proprio sogno mitopoetico di un io ancora «faunesco» in grado di assumere e riunificare nel diapason amplissimo della propria sensività i sensi riposti della natura e la frammentazione dell’essere. In realtà la stessa oltranza sperimentale di quel primo libro lascia intravedere la presenza di increspature, del dubbio – magari ancora inconsapevole – della difficile perseguibilità di quel sogno accarezzato. Non diversamente si potrebbero comprendere i testi immediatamente successivi, cui sopra facevo riferimento, nei quali la parola, abbandonata ogni mira delle altezze assolute, si appresta a mettere in scena e dare voce alla materia nella sua dura e inerte consistenza e ai molteplici e insensati frammenti dell’esistere. Quello cui Manetti di appresta, qui, a dare forma è una sorta di assoluto realismo del pensiero che interpreta il senso delle cose e della vita senza interporre alcun filtro, senza cedere ad altra lusinga che non sia quella del momentaneo calore di un affetto, dell’intenerimento per la caducità della diverse manifestazioni dell’esistere immerse nella freddezza meccanica di un cadere non direzionato: quasi un moderno De rerum natura, più frammentato e intermittente di quello lucreziano e con una capacità di stupore che solo a tratti tocca la corda dell’incondizionata ammirazione, e più spesso – invece – quella ben ardua e disperata del desolato sconcerto. […]
Giancarlo Quiriconi