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Atlante di Zoologia degli Animali Incogniti e Rari. Disegni di Giorgio Bertolini

Il 7 maggio 2014, presso la Galleria Embrice (Roma, Via delle Sette Chiese, 78) si inaugura la mostra Atlante di Zoologia degli Animali Incogniti e Rari. Disegni di Giorgio Bertolini, a cura di Carlo Severati.

Il ciclo di lavori presenti in questa mostra ha l’immediata capacità di proiettarci in differenti mondi: anzitutto in quello del disegno e delle sue infinite declinazioni dove ogni cosa, avendone le capacità, è permessa, e in molti altri apparentemente assai lontani tra di loro. Nel compiere questa operazione Giorgio Bertolini si serve di tutto ciò che ruota  intorno al concetto di citazione, inteso come viaggio metalinguistico attraverso le potenzialità della rappresentazione, della sua storia e di storie parallele o affini a essa. In questi disegni a china su carta a essere evocato è il mondo dell’incisione, per secoli il mezzo che ha consentito la diffusione su larga scala delle immagini attraverso la loro riproduzione in serie: paesaggi, vedute, scene mitologiche o di storia antica, illustrazione di testi e  spedizioni scientifiche. Si tratta di un mondo nel quale spesso coesistevano due distinte figure, quella dell’inventore che lavora con la fantasia e la cultura visiva e quella dell’incisore che traspone il disegno, attraverso la sua abilità manuale, sulla lastra. Nel caso di Bertolini le due figure coincidono o meglio potrebbero probabilmente coincidere se non fosse che l’artista prepara il lavoro per l’incisore ma non lo fa realizzare, si appaga del progetto, dell’invenzione da se medesimo dispiegata e organizzata con estrema cura senza passare alla fase calcografica, alla stampa delle tavole. Il motivo è forse da ricercare nel fatto che si tratta, come recita l’elaborato frontespizio, delle tavole di un Atlante di zoologia illustrato, frutto delle scoperte scientifiche di un naturalista che ha molto viaggiato fino ad esplorare terre lontanissime e remote e che ha portato con sé, come spesso accadeva, un artista al seguito per riportare diligentemente sulla carta le sue mirabolanti scoperte. Giorgio Bertolini è appunto l’artista al seguito – questa è l’inventio, l’assunto di partenza dal quale egli muove per la sua trascinante e raffinatissima parata di creazioni e calembour iconografici, bozze di tavole che non verranno mai incise. E naturalmente, come spesso accade, il disegnatore non possiede uno  sguardo rigorosamente oggettivo come vorrebbe il committente, e quindi, fatalmente, all’interno delle tavole scientifiche riaffiorano figure e temi emergenti dalla sua storia e dai suoi studi – non citazioni testuali ma immagini prodotte mediante una sorta di insorgenza spontanea, frutto di automatismi della memoria. Tutto ciò accade quindi senza la mediazione di un programma iconografico preordinato ma con la leggerezza di chi ha negli occhi e nella mente, da sempre, le immagini dell’arte che ha amato. Il viaggio grafico diventa così un modo per omaggiare, tra molte righe e in maniera assolutamente autoironica, anche i propri numi tutelari: darwiniani varani alati? Si, ma parenti del drago sfortunato che l’eroe cristiano va puntualmente ad uccidere per salvare la fanciulla indifesa (Paolo Uccello); oppure, tra gli animali che popolano la bottega del pittore, il coniglio sotto la scala e il gatto mammone (Dürer e  Lorenzo Lotto nell’Annunciazione di Recanati). Gli elefantini della tavola XXI arrampicati perigliosamente sull’albero evocano la figura del piccolo Annone, donato dal re di Portogallo a Leone X nel 1514 e raffigurato nei disegni di vari artisti (Raffaello, Giulio Romano). Anche nella tavola XVII dove compare il  missionario (Matteo Ricci?) davanti alle anatre con tre zampe, il soldato di scorta sembra uscire dal seguito dei Magi dell’Adorazione degli Uffizi (Mantegna). Si tratta di un viaggio che Giorgio Bertolini compie nel mondo incantato delle sue passioni, l’arte ma anche la musica, come nelle due tavole (la III contenuta solo nel libro) dedicate alle travagliate esibizioni del pianista-esecutore che, con fortune alterne, cerca di irretire il serpente–compositore: nella prima di esse non c’è tastiera e lo spartito è quasi vuoto – pezzo tremendamente difficile da suonare o, appunto, da non suonare (Cage). Alla fine è come se Bertolini nel suo viaggio giocasse a depistarci tutti lasciandoci però la possibilità, come per Pollicino, di ritrovare la strada del ritorno attraverso le tracce lasciate dagli infiniti mondi della natura e dell’arte.

Alberto Giuliani   

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Casa Alessandrini. Trasformazioni Ritrovamenti.

Dal 27 gennaio al 10 febbraio 2012, la Mavg (Mediateca di Architettura di Valle Giulia) presenta – presso la Galleria Embrice (Roma, Via delle Sette Chiese, 78, www.embrice.com) – una mostra a cura di Emma Tagliacollo intitolata: Casa Alessandrini. Trasformazioni Ritrovamenti. La mostra si inserisce nel progetto, Five Roman Flats, che si propone di raccontare un pezzo di Roma, cinque storie attraverso cinque alloggi oggi borghesi;  in passato case di famiglie privilegiate o, come in questo caso, disagiate.

Casa Alessandrini si trova in uno stabile del 1880, all’ultimo piano del civico 168, in Via Alessandria. Una zona sorta sotto la spinta della speculazione fondiaria di compagnie private, durante la febbre edilizia nelle more tra il piano regolatore generale per Roma Capitale del 1873, mai tramutato in legge, e quello approvato del 1883.

E i dintorni richiamano al periodo immediatamente postunitario, a partire dalla breccia di Porta Pia, risarcita e imbalsamata nei marmi celebrativi di Roma Capitale con tanto di colonna celebrativa davanti, per finire alla toponomastica per lo più regia, piemontese e, come è giusto che sia, patriottica, con una forse più tarda estensione irredentista. Un itinerario che seguendo, naturalmente, Via Alessandria – l’asse viario sul quale si ammassano case intensive per gli impiegati dei vicini, e quasi coevi, Ministeri dei Trasporti e dei Lavori Pubblici – arriva ad un estremo, dove la strada, attraversando Piazza regina Margherita, si biforca in Via Zara e in Via delle Alpi; dall’altro capo invece sfocia in Piazza Alessandria, e da lì, per Via Bergamo e Via Ancona, si collega a Piazza Fiume, quindi a Corso d’Italia (dove, dietro le macchine parcheggiate, si nasconde la Breccia), e infine al Piazzale di Porta Pia.

L’appartamento, realizzato nelle sue forme attuali trent’anni fa, sfugge a una lettura banale quanto a una sofisticata. Memore delle alte, interminabili quinte della strada, che costringono il passo e l’occhio su un implacabile asse costruito, un visitatore saltuario si smarrisce nella minuta serie di compressioni e dilatazioni realizzata dal progettista, finché non si affaccia di nuovo, da una delle strettissime logge dell’attico, sulla palazzata. Il perché di tale smarrimento non risiede solo nella bizzarria ritmica degli spazi abitativi: ma risiede nello iato fra questi e la storia urbana raccontata dall’intorno.

Le ragioni del progetto di Casa Alessandrini, si muovono nella tensione tra l’estetica e la praticità dei diversi elementi che tendono verso un’unica immagine di razionalità e pulizia. È in questo contesto che il legno domina, fedele alla sua natura di materiale non artificiale, usato allo stato grezzo, senza dunque alcuna coloratura. Ogni stanza può essere identificata dal progetto che contiene: lo spazio del salotto con l’armadio-libreria che racchiude e regolarizza la geometria dell’ambiente; la camera da letto con il letto-zattera e il piccolo lavandino colorato, moderno che vuole richiamare un retaggio antico; la cucina con fuochi sospesi, angoli curvi e l’idea di un tavolo-isola per la convivialità.

L’esterno, come abbiamo detto, rimane ottocentesco. Fuori di questa in fondo rassicurante storia patria che il quartiere testimonia sin dalla toponomastica, nei centoquarantuno anni passati, è successo di tutto nel mondo. Fino al Pacific Trash Vortex, il cumulo di plastiche non degradabili grande come la Spagna o più, che saltuariamente scarica sulla costa delle Haway colline di rifiuti alte metri, spinto dalle correnti. Ed è fuori dal quartiere, tra le spiagge di mezzo mondo, che Alessandrini ha raccolto, per vent’anni, alcuni frammenti di quei cento milioni di metri cubi di plastica del Pacifico e ne ha fatto una piccola collezione estetica che conserva, dentro, in casa. Anticipa forse così, il destino di quei cento milioni di famiglie che, se si volesse oggi far scomparire il vortice di plastica, dovrebbero mettersene in casa un metro cubo. Se i pezzetti di plastica di Alessandrini sublimano un dolore, l’estetica della profezia di Marcuse prenderà forse vita come sublimazione del riconoscimento attonito che per le future generazioni non ci sarà più nulla (o troppo) da fare.

Fotografie di Humberto Nicoletti Serra. Video di Carlo Tomassi.

Il pannello della cucina di Casa Alessandrini.
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TOMMASO FRANCHI: LETTINI.

In mostra da Embrice (Roma, Via delle Sette Chiese, 78, Tel. 06.64521396, www.embrice.com), dal 26 maggio all’11 giugno 2011, Lettini, a cura di Paolo Balmas, la produzione seriale di Tommaso Franchi di piccoli oggetti inquietanti, appunto dei lettini. Realizzati in maniera spiritosa, intelligente, bizzarra, con spilli, fiammiferi e altre cose, insomma in maniera divertita. Oggetti caratterizzati da una curiosa fattura con certe sapienze e con certe volute trascuratezze, che fanno vedere un mestiere consumato, malgrado un’esperienza artistica creativa in senso proprio relativamente di giovane età.

Cinquanta sculture minime, dei lettini. Talvolta vuoti, talvolta occupati. Abitati da un’umanità allo stato larvale, esistenze in divenire. Bachi, bozzoli sistemati e protetti in una specie di loro grande dormitorio, a vivere delle avventure, dei movimenti, delle libertà possibili. Ciascuno con un’identità che si evolve in direzioni diverse; per ciascuno è progettata una sua storia particolare, un canovaccio: ce ne sono con più futuro e con meno futuro, di più e meno felici. Una descrizione tassonomica, gerarchizzata, anzi, a gerarchia zero, ché mette tutti nella stessa posizione orizzontale, e che finisce però sempre per riaccostarsi a temi delle nostre principali interrogazioni. Una strana situazione che ripropone il tema dell’immobilità e ci induce a chiederci se a un certo punto fra gli istinti umani non ci sia anche quello di non evolversi, un modo di non accettare la nostra fragilità, di non accettare che le cose cambino bloccando tutto formalmente. Un po’ il principio dell’arte, cioè far vivere in eterno un’immagine, una cosa che non vorremmo che cambiasse, o al contrario, la paura dell’arte, intesa come un mutamento possibile, come creazione, per cui ogni opera invita a crearne un’altra e a mantenere quell’atteggiamento di trasmissione, di desiderio che genera desiderio. Interrogativi inquietanti di carattere un metafisico, cui, Tommaso Franchi – pur negandoli, e assumendo piuttosto un atteggiamento quasi da scienziato – non può impedire di tornare a galla.

Tommaso Franchi è nato a Roma nel 1966, con una laurea in fisica e studi d’arte in Italia e Francia, ha una storia personale che lo porta a fare mestieri anche distanti dal campo artistico. Ha partecipato finora a due collettive a Venezia e a Roma. Una produzione artistica pregressa con uno sperimentalismo didattico, lo ha spinto sulle strade di alcune delle esperienza artistiche già consolidate nella storia dell’arte contemporanea.

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Presso la Galleria Embrice di Roma, si apre la mostra: 1911-2011: CENTENARIO DI UNA CASA A ROMA. (FRF) FIVE ROMAN FLATS. UN PRIMO CAMPIONE.

la MAVG Mediateca di Architettura di Valle Giulia, dell’Università degli Studi La Sapienza,

presenta

1911-2011: CENTENARIO DI UNA CASA A ROMA. (FRF) FIVE ROMAN FLATS. UN PRIMO CAMPIONE.

A cura di Amedeo Fago.

Con il patrocinio della Biblioteca Centrale della Facoltà di Architettura.

Inaugurazione: venerdì 13 maggio 2011, dalle ore 18.00
La mostra rimarrà aperta da venerdì 13 maggio a sabato 21 maggio 2011.
Orario: 18.00 – 20.00. Chiuso la domenica.

Dal 13 al 21 maggio 2011, la Mavg (Mediateca di Architettura di Valle Giulia) con il patrocinio della Biblioteca Centrale della Facoltà di Architettura, presenta – presso la Galleria Embrice (Roma, Via delle Sette Chiese, 78, Tel. 06.64521396 www.embrice.com) – una mostra a cura di Amedeo Fago intitolata, 1911-2011 centenario di una casa a Roma.
Si apre così un nuovo progetto, Five Roman Flats, di cui la mostra che Embrice dedicata alla casa che Carlo Mazza costruì per sé e i suoi nel 1911, rappresenta un primo campione. Si tratta di raccontare un pezzo di Roma. Cinque storie attraverso cinque alloggi borghesi, appartenuti a soggetti con ruoli sociali di rilievo della Roma che va dal periodo liberale a quello fascista, e che hanno lasciato alle generazioni successive patrimoni immobiliari frammentati, fra più grounds e in più edifici. Contestualmente, la ricerca sui singoli alloggi, prevede un lavoro affidato a diverse professionalità la cui unica tappa obbligata è la presenza di una breve presentazione scritta affidata ai gestori attuali. Seguono la preparazione di una mostra presso Embrice e l’elaborazione di un testo teatrale. Tutte le fasi, dalla visita del flat alla prima teatrale, vengono riprese per confluire in un documento filmato. La combinazione dei diversi passaggi, in presenza di cinque soggetti materiali, darà luogo a centinaia di possibili varianti.
Il percorso complessivo è stato strutturato in maniera articolata per permettere, al di là dell’analisi storica dal punto di vista architettonico e urbanistico, di narrare la storia di un luogo cercando di far emergere quelle memorie individuali e collettive che in esso sono depositate.
La casa Mazza, oggi Buontempo Danusso, è collocata sulle pendici di Monte Mario che sovrastano a sud il tratto iniziale, in salita, della Via Trionfale; l’area, totalmente agreste, era entrata già dal 1909 nell’interesse della famiglia, costretta dagli espropri a lasciare la prima residenza nell’area delle Terme di Caracalla. L’aspetto esteriore molto semplice o modesto, la denota come un edificio di quello che era il margine periferico della zona nord-ovest, la casa non mostra un carattere di rilievo dal punto di vista architettonico, né ci sono tracce del disegno dal quale furono tratti i piani di costruzione, che molto probabilmente è stato tratto da uno dei numerosi manuali apparsi a stampa in Italia a partire dal 1890.
L’isolamento costituisce l’elemento di risalto di questa abitazione a tre piani, che è separata dal contesto edilizio contiguo, ed è circondata e schermata da un ampio spazio verde sottostante Villa Miani, nonostante l’area sia stata inserita dal 1931 nel PRG di Roma. Ed è interessante notare come la singolarità della casa, risieda nel suo insistere in un luogo appena sfiorato dai diversi piani regolatori di Roma Capitale, redatti a partire dal 1873. Dal primo, successivo di soli tre anni alla Breccia di Porta Pia, dell’ingegnere Alessandro Viviani, passando per quello redatto da Rodolfo Bonfiglietti nel 1906, e quello di Edmondo Sanjust di Teulada del 1908, per finire al Prg del 1931.
Organizzazione: Carlo Severati, Vincenzo Nizza, Gianluca De Laurentiis, Daniele Forlani.
Riprese: Massimo Casavola, Alberto Michetti, Carlo Tomassi.
Montaggio: Carlo Tomassi, Amedeo Fago.
Fotocolor: Humberto Nicoletti Serra.
3D e Animazione: Jacopo Pomante.
Testi: Amedeo Fago, Luciana Buontempo, Massimo Casavola, Giuseppe Miano.
Modelli: Umberto Buontempo.
Ricerche: Carlo Tomassi.
Allestimento: Massimo Casavola,Vittorio Giusepponi, Carlo Severati.

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SHAGHAYEGH SHARAFI: LA TERRA CHE NON ESISTE.

terraGalleria Embrice – Roma, Via delle Sette Chiese, 78 – Tel. 06.64521396 – www.embrice.com

SHAGHAYEGH SHARAFI: LA TERRA CHE NON ESISTE.

A cura di Paolo Balmas.

Inaugurazione: venerdì 4 marzo 2011, dalle ore 18.00

Da venerdì 4 marzo a giovedì 17 marzo 2011. Orario: 18.00 – 20.00. Chiuso la domenica.

Da venerdì 4 marzo a giovedì 17 marzo 2011, la galleria Embrice (Roma, Via delle Sette Chiese, 78 – Tel. 06.64521396 – www.embrice.com) propone un allestimento di Shaghayegh Sharafi, artista iraniana (è nata a Tehran nel 1963,) ma formatasi in Italia (si è laureata all’Università degli Studi di Roma nel 1990). Shaghayegh ha già esposto, tra il 2001 e il 2002, al MLAC di Roma (Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea); nel 2002 alla Galleria Studio Lipoli di Roma; nel 2005 a Cefalonia (in Grecia); infine, nel 2009, alla Galleria Azad di Tehran. La mostra è curata da Paolo Balmas.

Un rumore, fuochi d’artificio o bombe che cadono. Un film con neri passi femminili, su materiale fittile e paglia: non vanno da nessuna parte. Una teca di vetro con terra che non c’è più, senza le piante. Richiamo alla nascita e alla morte: intorno a noi c’è come un panico che coinvolge tutti.
Ognuno prende e usa gli elementi che gli servono per la sua opera; Shagha avrebbe fatto il suo lavoro egualmente anche se fosse stata in Iran,
Shaghayegh cerca un rapporto di continuità tra quello che ci presenta oggi in questa mostra e quello che ha fatto in passato, è quello di saper partire col piede giusto, cioè di usare sì la tradizione del proprio paese ma sempre e solo alla ricerca di quegli elementi che permettono una comunicazione fra tutti, una comunicazione che anche in qualche modo va al di la delle classi sociali e del tempo storico. Una cosa che ho scoperto proprio frequentando lei è che in Iran tutti conoscono certi autori, certi poeti, magari anche se sono di cinquecento o di mille anni fa, c’è cioè una cultura letteraria diffusa, cosa che da noi non esiste o esiste solo in maniera frammentaria. Si conoscono I primi versi della Divina Commedia, ma poi non si va oltre.
Tornando all’Iran quindi c’è questa specie di stasi, di capacità della cultura, al di la delle differenze di classe di distendersi nel tempo e di attraversarlo come se il tempo non avesse una linearità, non fosse irreversibilmente intriso del senso del progresso ecc. Certe cose rimangono uguali per secoli, sono sempre le stesse e tutti, in qualche modo, possono riferirvisi. Questo è il nucleo ideale del lavoro Shaghayegh Sharafi: attraversare la storia cercando valori elementari che uniscano tutti e che tutti possano comprendere.
la presenza del vaso e della terra può esserci utile a capire, si tratta infatti di cose che vengono dall’interno, sono interiorizzate.

Carlo Severati

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LETTURE DI UNA SCATOLINA INDUSTRIALE

Galleria Embrice – Roma, Via delle Sette Chiese, 78 – Tel. 06.64521396 – www.embrice.com

LETTURE DI UNA SCATOLINA INDUSTRIALE

A cura di Carla Corrado e Giovanna Deppi
Allestimento di Vittorio Giusepponi

Inaugurazione: venerdì 10 dicembre 2010, dalle ore 18.00

Da venerdì 10 dicembre a mercoledì 22 dicembre 2010. Da lunedì 10 gennaio a venerdì 14 gennaio 2011.
Orario: 18 – 20, chiuso la domenica.

Il design dimensiona il gesto: partendo da questo assunto, che tutti verifichiamo nel quotidiano – usando un mouse o un apribottiglie -, il tema touch me circola, subliminale, nella comunicazione della Giorgio Fedon & Figli S.p.A. Un tema che evoca le radici del migliore italian design, e assume una valenza che va al di là della pura operazione commerciale.
Una valenza che lo Studio-Galleria Embrice di Roma (www.embrice.com) ha colto, dedicando una mostra alle molteplici letture possibili del prodotto Mignon. Si tratta di una piccola scatolina industriale, appunto, con alle spalle una storia che si lega strettamente al discorso sullo stile portato avanti dalle grandi firme internazionali nella seconda metà del XX secolo.
I primi disegni sono del ’96-97. Il Mignon, rimasto per qualche anno allo stadio di prototipo (’97-‘98), è stato realizzato con sistemi poco più che manuali per delle piccolissime produzioni per occhiali pieghevoli C.D. a fine anni ’90.
La forma è stata ottenuta sezionando e riducendo un guscio di lamiera del modello Orion, studiato per Armani: una forma che si è evoluta, progressivamente dimensionata e perfezionata con diecine di campioni tridimensionali al vero.
I materiali per costruire “maquettes” sono stati, all’inizio, legno o materiale espanso; poi stampi in PVC, o resina, con una fresa a controllo numerico da disegno 3D.
Successivamente il Mignon è stato “attrezzato” per la campagna “Mini Touch – riempie la vita” e contemporaneamente adottato anche dalla GIORGIO FEDON 1919, una divisione dell’Azienda che ha abbinato ad ogni scatoletta un pieghevolino descrittivo dei possibili usi.
Sono seguiti i Mignon per lenti a contatto con e senza specchio.
Risalgono al 2004 una serie di motivi “graffity” a due, tre colori marcati all’esterno e al 2008 le linee “animali”; numerose altre “ linee” sono ancora in corso di progettazione.
Nel tempo, molti Mignon sono stati personalizzati all’interno o all’esterno per firme conosciute o varie aziende, come promozionali.
Oggi la linea di produzione è in buona parte automatizzata.
Il piccolo (Mignon, appunto, della GIORGIO FEDON 1919) astuccio a scatto troverebbe posto in un allusivo ambiente fantastico, composto di futuribili oggetti di probabile fabbricazione industriale, in assenza di gravità.
Molti esemplari dell’astuccio potrebbero volare in uno scenario dall’aspetto un po’ metafisico, nel quale non c’è alcun riferimento dimensionale: tranne, appunto, quello fornito dal Mignon, molti esemplari del quale sono esposti nella loro consistenza reale.
Nel 2000 leader della produzione di astucci per occhiali di griffe al top del mondo industrializzato, la Giorgio Fedon & Figli S.p.A decide di avviare, sulla base di un Brevetto Internazionale dello stesso anno, la produzione di un astuccio per occhiali pieghevoli che progressivamente perde il vincolo della sua funzione iniziale, assumendo l’identità Mignon.
Mignon quindi (scocca in lamiera imbutita, fodera stampata in polistirolo floccato termoformato, rivestimento in centinaia di diversi materiali) diventa, con innumerevoli grafiche aziendali, un autorevole contenitore multiuso. Che cerca di affacciarsi, un po’ contro l’usa e getta, sul versante del bene durevole.

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CARLA BREEZE: “COCOA/SKY”.

Galleria Embrice – Roma, Via delle Sette Chiese, 78 – Tel. 06.64521396 – www.embrice.com

CARLA BREEZE: “cocoa/sky”.

Curator Carlo Severati

Opening on Friday,October 22 2010; 18.00-22.00

 From Friday October 22, 2010, to Friday November 12, 2010; 18,00-20,00 – Closed on Sundays.

Carla Breeze’s images, created from printed files, show matter as stretched and spread as in a preparation for histological testing: a transparent matter which light emphasises as colour and textures.

Since September 11th 2001, when she was not at home- a few steps away from WTC- with his husband Wayne, she devoted herself mainly to her artistic work.

She’s been always an attentive observer of American arts and crafts having a background  as a professional photographer based in New York.

In 1979 she graduated in Art History at UNM and from1984 to 1998, both in New York and Albuquerque, she worked as a phoptographer, a writer and  an artist exploring  the relationship between light and matter.

                                                     Gian Luca De Laurentiis

 

Carla Breeze costruisce immagini ottenute da stampe da file, presentando la materia stesa e spalmata, come nei vetrini istologici: una materia permeabile alla luce, che la attraversa, e la evidenzia presentandola come colore e textures.

Carla si dedica quasi esclusivamente al suo lavoro artistico da quando, la mattina dell’11 Settembre 2001 la coglie col marito Wayne, lontano casa che è a pochi passi dal WTC.

Da sempre attenta osservatrice delle american arts and crafts, con alle spalle, nella sua New York, una formazione giovanile di fotografa professionale, nel 1979 si laurea in Art History alla UNM.

Numerose pubblicazioni sull’American Art Deco, lectures e otto mostre, dal 1984 al 1998, fra NY e Albuquerque, presentano il suo lavoro diviso fra fotografia, saggistica e le prime prove artistiche basate sulla ricerca del rapporto tra luce e materia.

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La Galleria Embrice propone la mostra: CARLA BREEZE: “COCOA/SKY

 

Galleria Embrice – Roma, Via delle Sette Chiese, 78 – Tel. 06.64521396 – www.embrice.com

 

CARLA BREEZE: “COCOA/SKY”.

A cura di Carlo Severati

Inaugurazione: venerdì 22 ottobre 2010, ore 18.00 – 22.00

Da venerdì 22 ottobre 2010 – a venerdì 12 novembre 2010. Orario: 18 – 20, chiuso la domenica.

Carla Breeze costruisce immagini, ottenute da stampe da file, presentando la materia stesa e spalmata, come nei preparati per esami istologici: una materia permeabile alla luce, che la attraversa, e la evidenzia presentandola come colore e textures.

Si dedica quasi esclusivamente al suo lavoro artistico da quando la mattina dell’11 Settembre 2001 la coglie, col marito Wayne, lontana dalla sua casa che è a pochi passi dal WTC.

Da sempre attenta osservatrice delle american arts and crafts, con alle spalle, nella sua New York, una formazione giovanile di fotografa professionale, nel 1979 si laurea in Art History alla UNM.

Numerose pubblicazioni, lectures, e otto mostre, dal 1984 al 1998, fra NY e Albuquerque, presentano il suo lavoro diviso fra fotografia, saggistica e le prime prove artistiche basate sulla ricerca del rapporto tra luce e materia.

Carla Breeze non si preoccupa dell’arte, ma propone una riflessione artistica su materia, spazio, superficie, altezza, larghezza, profondità, luce, colore, calore: aspetti di un mondo tangibile e reale.

Ed è una materia che contraddice la Legge di Conservazione della Massa desunto dalla meccanica classica: non è vero che la materia ha una massa che non cambia anche se variano forma e volume.

E non si tratta neanche di materia eterogenea (come il granito, la cui composizione non definita emerge evidentemente alla vista), ma proprio di un qualcosa che si ricombina e si presenta diverso nei diversi luoghi dello spazio e del tempo.

I suoi elementi essenziali hanno distanze e proprietà variabili, forse si compenetrano, è sono addensati grazie a linee di energia che si intuiscono in negativo nel rapporto che si instaura tra la luce e i componenti elementari della materia.

Il colore attraversando la materia ne esalta i contorni, perché essa è composta anche di vuoto.

Un vuoto occupato dalla luce (energia/calore/colore). In questo modo il colore inizia a vivere intorno alla materia e la materia – che ne emerge – diventa segno (in questo senso le cose che fa Carla Breeze hanno a che fare con l’arte, con la rappresentazione). I segni a loro volta illuminano il colore, perché emergono dalla luce e ci navigano dentro.

Si tratta di esperimenti che hanno precedenti, da Mario De Luigi a Robert Ryman: ma che – al di là e al di qua del necessario tentativo di contestualizzazione e storicizzazione -, portano nei lavori di Carla Breeze a nuove forme di linguaggio e nuove forme di vita.

 

Gian Luca De Laurentiis

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http://w3.uniroma1.it/diarambiente Un portale web per l’architettura e l’ambiente di Rosalba Belibani, Franca Bossalino, Anna Gadola.

Galleria Embrice – Roma, Via delle Sette Chiese, 78 – Tel. 06.64521396 – www.embrice.com

http://w3.uniroma1.it/diarambiente Un portale web per l’architettura e l’ambiente di Rosalba Belibani, Franca Bossalino, Anna Gadola.

A cura di Carlo Severati

Inaugurazione: venerdì 23 aprile 2010, ore 18.00

Da venerdì 23 aprile 2010 – a lunedì 3 maggio 2010. Orario: 18.00 – 20.00, chiuso la domenica.

A partire dal 23 aprile la Galleria Embrice di Roma (Via delle Sette Chiese, 78, www.embrice.com) tiene a battesimo il nuovo sito del Diar, Dipartimento di Architettura della Facoltà “Ludovico Quaroni“ di Roma: “http://w3.uniroma1.it/diarambiente”, portale web dedicato al tema della sostenibilità per l’architettura e per l’ambiente. La mostra, a cura di Carlo Severati, sarà aperta fino a lunedì 3 maggio 2010.

Nella visione di Vitruvio l’individuo e l’ambiente sono considerati coma parte di uno stesso grande disegno universale; in cui “tutto è uno”, tutto è connesso; in cui l’uomo e l’ambiente interagiscono e si influenzano reciprocamente; in cui ritmi, energie, forze tendenze sono comuni all’individuo quanto a tutto ciò che lo circonda.
Da Vitruvio a Wlliam Mc Donough, David W. Orr, Edward Marzia, e gli italiani Piero Pozzati e Felice Palmeri per continuare con gli approfondimenti di Ernst Friedrich Schumacher, di David Suzuki, di Fritjof Capra, di Edgard Morin, James E. Hansen, Thomas L. Friedman: in questo sito sono raccolte le più importanti coscienze ecologiche della Terra.
L’attività edilizia – che coinvolge azioni quali l’estrazione dei materiali, la loro lavorazione, la costruzione, la gestione, la manutenzione e infine la demolizione – con una produzione del 48% di gas serra inchioda il sistema edilizio alle sue responsabilità.
Se riconosciamo agli architetti il ruolo di connettere i diversi campi disciplinari e la capacità di comprendere le propensioni che hanno tutti gli attori che intervengono nel processo della costruzione, capiamo l’importanza che gli architetti rivestono nel far sì che le nuove idee si sviluppino più velocemente e che le informazioni circolino.
L’educazione dell’architetto del XXI secolo è l’ambizioso progetto del portale web per l’Architettura e l’Ambiente del DiAR – Dipartimento di Architettura della Facoltà “Ludovico Quaroni“ di Roma – realizzato da Rosalba Belibani, Franca Bossalino e Anna Cadola.
L’accurata selezione di testi, immagini, contenuti – che si svela dietro gli iperlink del DiARAMBIENTE – è volta alla alfabetizzazione ecologica da realizzarsi entro il 2010 per acquisire gli strumenti necessari a vincere la sfida del 2030 in cui il progetto di architettura dovrà porsi l’obiettivo di curare la terra e di costruire edifici, quartieri e città ad emissioni zero nel 2050.

Leone Spita
Titolo della mostra:
http://w3.uniroma1.it/diarambiente
Un portale web per l’architettura e l’ambiente
Autori: Rosalba Belibani, Franca Bossalino, Anna Gadola.
Curatore: Carlo Severati
Inaugurazione: Venerdì 23 aprile, 2010 ore 18.00
Durata della mostra: da venerdì 23 aprile a lunedì 3 maggio 2010
Orario: dal lunedì al sabato dalle 18.00 alle 20.00
Ingresso: libero

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