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GUIDO ORSINI “PASSATO PRESENTE”

 

COMUNE DI CERVETERI

Assessorato allo Sviluppo Sostenibile del Territorio

 

GUIDO ORSINI PASSATO PRESENTE”

DAL 16 AL 18 OTTOBRE 2015

A cura di Anna D’Elia e Romina Guidelli

 

SALE RUSPOLI: PIAZZA SANTA MARIA, CERVETERI (RM)

PREVIEW STAMPA GIOVEDÌ 15 OTTOBRE ORE 18.30

VERNISSAGE VENERDÌ 16 OTTOBRE ORE 18.30

Le sale espositive saranno visitabili da venerdì 16,

sabato 17 e domenica 18 ottobre 2015, dalle ore 16.00 alle ore 20.00

Libro d’artista.

Testi di Anna D’Elia, Romina Guidelli e Mary Angela Schroth

In occasione dell’inaugurazione della mostra sarà presente al pianoforte la Professoressa

Maria Grazia Ciofani

INFO MOSTRA: WWW.GUIDOORSINI.COM – MOB. +39 349 5202413

SPONSOR TECNICO MOSTRA: STRADA DEL VINO TERRE ETRUSCO ROMANE

 

Il 16 ottobre sarà aperta al pubblico la mostra “PASSATO PRESENTE” di Guido Orsini.

L’esposizione, che sarà visitabile dal 16 al 18 ottobre 2015 presso le prestigiose sale espositive di Palazzo Ruspoli, sito in piazza Santa Maria a Cerveteri, presenterà una selezione delle opere fotografiche di Guido Orsini dal 1992 al 2015. La scelta di un allestimento che non segue un ordine di esposizione cronologico ma concettuale, pone l’accento sulla poetica di un artista che si esprime attraverso una ricerca di tipo simbolico- rappresentativo, derivata da un approccio pittorico applicato al mezzo fotografico. Il progresso di questo studio negli anni e quello legato alla continua evoluzione degli strumenti fotografici, portano Orsini al confronto con supporti e mezzi tecnici di diversa fattura, che gli consentono una resa sempre più accurata dei particolari nell’opera, favorendo l’esposizione dell’intuizione artistica e dell’intenzione concettuale, concedendogli di affinare un elaborato alfabeto stilistico.  Le opere appaiono come riflessioni di un lucido pensatore che esplora l’ambiguità dell’immagine con un impulso archivistico, orientamento che lo induce alla selezione e alla documentazione del particolare come prezioso frammento protagonista dell’opera.

“Che siano foto sculture o immagini stampate su pellicole trasparenti, opere appese ad un muro o poggiate sul pavimento  le creazioni   di Guido Orsini  aprono a  nuove funzioni della fotografia e propongono una figura professionale sfaccettata e complessa. Quella che stiamo presentando non è la mostra di un fotografo, ma di un artista a tutto tondo che si confronta con lo spazio in installazioni multimediali in cui la foto racchiusa all’interno di oggetti, materializza elementi naturali (mare, cielo, alberi) ma anche paradossi. Accade quando le fotografie del cielo danno vita a fondali sottomarini e quelle del mare aprono squarci nel soffitto, spingendo l’occhio al di là dei limiti, metafora di uno sguardo aperto oltre il visibile.

Scopo non secondario di queste fotografie è ridefinire altezze e profondità, circoscrivere campi, evidenziare bordi, isolare forme, restituendo del paesaggio una nuova mappa visiva. Gran parte del lavoro di Orsini può essere letto come la ricostruzione dello spazio vivente, al cui interno l’artista ritrova limiti, misure, orientamenti”.                                                                                                                                                              Anna D’Elia

“La sperimentazione artistica di Guido Orsini è fatta al microscopio di un obbiettivo. Le sue fotografie cercano “molecole-forme” che partecipano alla visione dell’intero, le architetture perfette date dalle linee che costruiscono l’aspetto del soggetto, scelto e interpretato, partendo dal vero. L’immagine fotografica diventa un indizio capace d’attivare l’immaginazione dello spettatore alla ricerca delle parti mancanti, ma bastano pochi secondi per perdere l’orientamento. Il panorama s’avverte, ma non è più necessario. Orsini ci avvicina al concetto d’identità dimostrando come essa si determina grazie a infiniti dettagli, unici e imprescindibili, in cui risiede l’espressione e l’impressione delle cose. Con sentimento e squisita cura, estrapola i talenti contenuti nei suoi soggetti senza mai snaturarne la fisionomia, alla ricerca del carattere.

…Un giudizio puramente estetico, iniziale, stabilisce cosa prendere e cosa perdere nello scatto, in un processo di selezione naturale che mette Orsini in perfetto contatto con l’originale e l’autentico”.                                                                                                                                                        Romina Guidelli

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Rinvenuto un eccezionale sito megalitico vicino Roma

Castel Giuliano, una località tra Bracciano e Cerveteri, già nota al turismo locale per le sue bellissime cascate ed all’archeologia per le tracce etrusche e medievali, potrebbe ora rivestire un ruolo centrale nello studio delle concezioni astronomiche e rituali dall’età del bronzo agli stessi Etruschi.

Da alcuni anni, l’associazione CIVITAS (Corpo Italiano di Vigilanza agli Itinerari Turistici Archeologici e Storici) un gruppo di appassionati e professionisti che dedica volontariamente il proprio tempo libero a salvaguardare il nostro patrimonio archeologico e paesaggistico, ha avviato un programma di mappatura degli antichi tracciati, servendosi di vecchie mappe, delle testimonianze scritte dal passato (grazie anche ad esploratori ed archeologi come Dennis, Nibby, Lanciani, Coppi e Tomasetti), delle individuazioni, le segnalazioni o i ritrovamenti di volontari, trekkers e bikers, tutte informazioni elaborate attraverso la recente tecnologia informatica e satellitare. Con questo sistema, solamente nel Lazio sono stati individuati almeno un centinaio di siti ed itinerari ormai quasi perduti dalla memoria del turismo moderno.

Un recente studio sperimentale del gruppo CIVITAS si è concentrato nel seguire un ipotetico percorso della cosiddetta “Via degli Inferi”, una strada sacra che, dopo aver attraversato longitudinalmente la necropoli de “La Banditaccia” nei pressi di Cerveteri, sembra perdersi nel nulla.

E’ infatti noto come gli Etruschi difficilmente avrebbero limitato una strada così importante ad un singolo abitato (e la citata necropoli, è disegnata come una città dei vivi), anche per la ossessiva commistione tra il senso profano (utilità per gli spostamenti) ed l’ispirazione sacra (orientamento, profondità, tappe e destinazione). Quel popolo era ben consapevole del significato simbolico nel riproporre una pianta urbanistica di vita quotidiana applicata ad una necropoli, quindi la “via centrale” doveva rispecchiare il medesimo senso mistico di ascesi rituale, come un’autostrada verso l’oltretomba. Per questa ricerca, è stato appositamente adottato un approccio empirico più che scientifico (da qui il senso sperimentale), anche perché dal punto di vista archeologico, moltissimi eminenti studiosi hanno studiato quest’area in modo rigoroso (ricordiamo tra questi, Judson-Hemphill, Mengarelli, Nardi, Enei) ma pochi si sono focalizzati sull’aspetto prettamente “religioso” fondato spesso su fattori aleatori piuttosto che tecnici. Abbiamo dunque preso il modello anticamente universale sui culti femminili rivolti alla Dea Madre, dove la presenza dell’acqua come principio vitale era fondamentale, per applicarlo ad un territorio che vede una forte presenza pelasgica e pre-Etrusca, Villanoviana o di quei popoli appartenenti alla cosiddetta “Cultura del Rinaldone”.

La storia ci insegna come i culti più antichi si siano spesso trasferiti alle culture successive, seppur con le dovute modificazioni: le divinità greche ed etrusche possono essere riscontrate con sottili differenze nei Romani, come molti concetti pagani (in particolare mitraici) nello stesso Cristianesimo. Seguendo l’assunto dello storico Jaques Le Goff secondo il quale “il sacro è tenace” cioè un luogo consacrato da una civiltà tende a conservare il suo status mistico per le popolazioni ed i culti successivi, ne deriva la lecita ipotesi che un percorso sacro varato da popolazioni antichissime sia poi stato riutilizzato dagli Etruschi collegandolo ad una viabilità cerimoniale edificata per il loro culto. Una “Via degli Inferi” che addirittura percorresse una necropoli delle dimensioni e dell’importanza come La Banditaccia (una delle più estese al mondo e patrimonio dell’UNESCO), non poteva –a maggior ragione- essere congeniata come fine a sé stessa.

A titolo informativo, ricordiamo che il concetto di “inferi” non era visto dagli Etruschi in accezione negativa, connotazione tipica del Cristianesimo, ma di un pantheon divino collocato nelle viscere della Terra più che nei cieli. Un “Olimpo” molto più vicino alla vita di tutti i giorni, a stretto contatto con gli eventi naturali, dove il mondo dei morti spesso si confondeva con quello dei vivi. La necropoli de La Banditaccia, sembra esprimere sia architettonicamente che emotivamente tutto il culto del “trapasso” e dell’aldilà tipici della fede etrusca. Basti pensare ai sarcofagi con la figura del Cerbero rinvenuti nell’area ed al nome stesso della vicina città di Cerveteri la quale apparirebbe su alcuni documenti antichi come “Cerbeteri” o “Castrum Cerbetere” (terra del Cerbero?), come congetturato da A.Szabo. Un’ipotesi non meno ardita della leggenda che vede tramutare il nome di Agylla in Caere per via di un saluto mal interpretato… La teoria di una toponomastica pagana e la successiva damnatio memoriae cristiana si fonderebbero nell’ancora attuale stemma comunale: un cervo nella postura tipica adottata per gli “Agnus Dei” … ed ancora più stranamente tricefalo.

Qualcosa ci diceva che seguendo i principi della spiritualità etrusca, questa Via degli Inferi dovesse rivestire un valore iniziatico e rituale, anche più elevato delle conosciute vie lucumoniche (o “tagliate”), un po’ come si sta dimostrando per l’antico tracciato che univa il santuario di Pyrgi ad Agylla e quindi a Caere. Il percorso, una volta usciti dalla necropoli, sembra dividersi in due opzioni. Una strada prosegue in direzione Nord su altipiani e la seconda, quella presa in esame, scende in un vallone fino alle sponde del fosso “Manganello” per poi, superato il moderno cimitero, proseguire in direzione NE in un’angusta gola dove confluiscono altri torrenti. L’intero cammino copre un dislivello di circa 300 mt in circa 12 km, tutto infossato tra le ripide pareti tufacee del “Fosso della Mola”.

Lungo il percorso, ben quattro cascate con un salto considerevole danno vita ad altrettanti laghetti, offrendo scenari impensabili alle porte di Roma e dei momenti di ristoro nel non facile cammino. Tutto sembra celebrare la sacralità delle acque, la cui dea Uthur (Orcla, Giuturna) era tra le principali nel pantheon etrusco. Superata l’ultima cascata che nasconde una grotta grossolanamente murata, ci si ritrova su un altopiano alle falde del monte “La Guardia”, tra i più alti della zona (escludendo il “Monte Santo” di circa 450 mt ed in prossimità della linea costiera).

E’ in questo luogo che iniziamo a rilevare dei massi levigati con incise decine di “coppelle” di varia forma e diametro.

Uno di questi sembra un seggio o una duplice vasca votiva ed un altro ha chiaramente scolpiti dei gradini. Altri monoliti hanno forme ovoidali o sono intagliati con figure geometriche: uno in particolare, di forma piramidale, cela a pochi metri i resti di una tomba a camera singola di chiara fattura etrusca, oggi ricovero di bestiame. Salendo su uno di questi megaliti, è stato possibile scorgere una protuberanza di roccia levigata emergere dal bosco, con al centro un grande foro ellittico, particolare che ci ha convinti ad addentrarci nella macchia. Con stupore (e molta fatica, perchè la fittissima vegetazione ricopre ormai ogni cosa), abbiamo rilevato centinaia di metri di pareti tufacee piene di coppelle ed altre nicchie di varie forme regolari, stese come un nastro pronto a misurare o raccontare qualcosa. All’interno del bosco non è stato possibile contare con esattezza la grande quantità di altri monoliti, dei quali nessuno sembra essere collocato in modo casuale: uno, in particolare, nel suo incavo ospita un tempietto matriarcale apparentemente intatto. Pur non essendo semplice individuare i confini precisi del complesso a causa dei rovi che rendono inaccessibile la risalita della collina, percorrendo il bordo esterno del bosco è apparso evidente come la presenza di incisioni e pietre lavorate ricopra tutto il versante Ovest della montagna. Interessante è l’andamento ad “imbuto” dell’insenatura principale dove la parete di destra (rivolta ad Est) sembra ricevere l’ombra da una vicina altura (area dove stiamo conducendo alcuni sopralluoghi o comunque da uno gnomone posto in posizione elevata, mentre la parete di sinistra sembrerebbe riportare le fasi lunari con le incisioni degli “spicchi” calanti e crescenti distanziati, fino al globo intero intagliato del megalite a forma di seggio. Non sforziamo la fantasia nell’intravedere in un monolite di forma sferica le fattezze stesse del nostro satellite.

Un foro confuso tra gli altri, situato verso l’uscita dell’altopiano si è in realtà rivelato una presa d’aria verso il centro del monte (corrente fredda percepibile fisicamente), destando il lecito sospetto circa la presenza di ambienti o passaggi sotterranei.

Decidiamo quindi di salire sulla cima del “Monte La Guardia” (nome appropriato, visto che si può godere di una vista a 360° per molte decine di km) dove troviamo un agriturismo (inesistente prima del 2003 e non collocato su precedenti manufatti, (come si può evincere dalle mappe cronologiche di Google Earth) dal quale dipende tutta la proprietà dell’area, cascate comprese. Il proprietario della tenuta “Monte La Guardia”, Sig.Gioacchino De Sanctis, con il quale ci siamo piacevolmente intrattenuti acquisendo la conoscenza di antefatti e notizie sul territorio e raccogliendo il disagio per un turismo sempre meno rispettoso del paesaggio naturale e delle proprietà che lo ospita, è parso molto interessato ai risultati che stanno via via emergendo, concedendoci l’autorizzazione a visitare il resto dell’area. Proprio sopra il versante interessato dai monoliti, appaiono evidenti alcuni basamenti di un esteso abitato arcaico, presumibilmente dell’Età del Bronzo, anche se alcuni frammenti di selce potrebbero far anche pensare ad un utilizzo in epoche precedenti. Anche in questo caso, le vie che dovrebbero accedere al complesso sottostante, sono rese inaccessibili dalla vegetazione.

Come analisi generale, la disposizione dei monoliti e delle simbologie parietali ricalcano quanto già rilevato in molti altri siti in Italia ed in Europa, lasciando presagire la correlazione tra il culto femminino della Dea generatrice di vita attraverso l’acqua e lo scorrere del tempo stagionale misurato con l’osservazione degli astri. L’umanità, già dal più recente neolitico, non si percepiva come un unicum accentratore del creato, bensì parte di un mondo naturale scandito dall’avvicendarsi delle stagioni da cui dipendeva la caccia, l’agricoltura e la vita stessa. Nella natura/Terra (che solo in seguito sarà considerata come una divinità antropomorfa), l’uomo osservava già il proprio ciclo di vita e morte come proiezione di un ciclo cosmico. La natura/Terra diviene così Madre benefica e sacrificale al contempo; essa è raffigurata da simboli semplici ma evocativi, in modo che ogni luogo sacro prescelto possa rappresentarne le sue peculiarità: la riproduzione e la vita. Essi riconoscevano nel parto ed in tutto il ciclo che precedeva l’evento, il maggior miracolo e mistero portato a termine dalla donna, esattamente come i frutti della natura giungevano al termine di cicli portati a termine dalle stagionalità dalla Terra, la Grande Madre. Si affacciano i primordi del concetto filosofico secondo il quale “ciò che in alto si manifesta anche in basso”.

A differenza dei successivi culti monoteisti maschili, lo stesso ciclo mestruale non era considerato impuro ma, anzi, una “magia”: l’uomo sanguina perché ferito o morente ma la femmina attraverso un evento emorragico incredibilmente si rigenera. Per questi motivi, nonostante la presenza di entità maschili propedeutiche come il Sole, si afferma in quasi tutto il mondo antico il culto del femminino sacro. Le prime società organizzate potevano dunque scegliere i luoghi che, per morfologia, risorse idriche o altitudine, potessero inscenare lo spettacolo della vita.

Come citato, esistono numerose località che nell’antichità hanno rivestito questo ruolo con simbologie più o meno delineate o rivolte maggiormente all’osservazione astronomica piuttosto che alla ritualità, ma nel sito di Monte la Guardia, assistiamo a qualcosa di differente, anche se forse meno scenografico dei menhir di Poggio Rota (G.Feo) o della Ziqqurat di Monte d’Accoddi (E.Contu): disegnando l’andamento ad imbuto dell’avvallamento dove risiedono la maggior parte delle tracce, notiamo evidenti segni di lavorazione plastica alla morfologia dell’area, fino ad ottenere una (poco casuale) somiglianza con la simbologia triangolare genitale femminile dello Yoni. Tale osservazione può essere avvalorata da un canale idrico artificiale scavato nel tufo che percorre, dal vertice del triangolo, parte dello schema, completando lo Yoni con il concetto orientale dei fluidi sacri dell’amore e della vita, “Tattva”, o mestruali, “Puspa”, anche questi in armonia con i cicli lunari ed astronomici e quindi temporali. La traiettoria del canale punta verso il monolite dalla forma ovoidale.

Le “coppelle”, il menhir (simbologia fallica propedeutica al ciclo vitale) posto sul lato rivolto al Sole, i megaliti sferici e ovoidali, le simbologie lunari sul lato opposto al Sole, gli altari ed i corsi d’acqua, a Monte la Guardia si fondono in un complesso ed articolato sito sacro dove l’uomo ha plasmato la natura senza invaderla con elementi ad essa estranei. Non solo l’Essere Umano è armonizzato con la Madre natura, ma la stessa Terra accoglie le proiezione del cielo quasi a voler equilibrare il proprio ciclo vitale. Da una prima analisi, in Italia fino ad oggi non esiste documentazione a descrizione di un sito così poliedrico, esteso e completo, come non abbiamo trovato traccia di precedenti analisi o studi relativi a questo sito, in chiave sacra e rituale.

Se ciò potrà essere confermato dagli studiosi che il CIVITAS sta interpellando, la piccola squadra di ricognizione composta da Germano Assumma, Ilaria Bartolotti e Massimo Bonasorte (assieme ad altri partecipanti dediti a studi astronomici, religiosi ed archeologici) potrebbe aver localizzato uno dei maggiori complessi astronomici e sacri in Italia utilizzati dall’Età del Bronzo, fino all’epoca etrusca o successive.

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Alla Sagra dell’Uva con i Diritti Umani

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  • 28 Agosto 2011

In favore della Dichiarazione Universale iniziativa a Cerveteri dei volontari romani di Gioventù Internazionale per i Diritti Umani

Roma 28 agosto 2011 – Ogni luogo è luogo per far conoscere e praticare i diritti umani. Per questo, in occasione della Sagra dell’Uva, in programma nel comune di Cerveteri per questo week end, i volontari della sezione romana di Gioventù per i Diritti umani Internazionale saranno presenti per un’ iniziativa di informazione ed invito a firmare la petizione popolare che chiede alle istituzioni di introdurre lo studio della Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite nelle scuole di ogni ordine e grado.

La Dichiarazione Universale sarebbe dovuta servire da codice sulle fondamentali libertà e sulla dignità umane per debellare definitavamente le guerre e le barbarie sulla Terra ridonando all’uomo quel decoro e dignità che ogni essere umano merita per nascita.

“I diritti umani devono diventare una realtà, non un sogno idealistico”. Con questo pensiero l’umanitario L. Ron Hubbard lanciava un appello di speranza per tutta l’umanità affinché tornasse a regnare sulla terra pace e serenità per ogni uomo e donna del mondo.

Nella realtà le cose sono ben diverse: guerre, ingiustizie ed intolleranza regnano ancora sovrane in alcuni angoli del nostro pianeta. Basti pensare: se il diritto numero uno è il diritto alla vita, come mai milioni di bambini muoiono di fame al giorno d’oggi?

Purtroppo il codice dell’Onu, ad oltre mezzo secolo dalla sua proclamazione viene violato in molte terre dove la tirannia e l’ignoranza tengono lontane le persone dal conoscere i propri diritti, in primo luogo, rendendo impossibile per loro difenderli.

Per questo Gioventù Internazionale per i Diritti Umani ha reso la Dichiarazione Universale accessible ad ogni persona, con video su ciascuno dei 30 articoli e opuscoli che contengono comunque il documento nella sua forma integrale. E con la sua petizione e le sue iniziative ne promuove la conoscenza e richiama alla responsabilità di ciascuna persona nel praticarne concretamente i principi, come ricordato dall’articolo 29 della Dichiarazione stessa.

Per informazioni:

www.youthforhumanrights.org

[email protected]

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