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ARTE FIERA 2015 – BOLOGNA CAPITALE DELL’ARTE

Dal 23 al 26 gennaio prenderà il via la manifestazione di punta per quanto concerne il mondo dell’arte in Italia: stiamo parlando dell’evento Arte Fiera, che sarà nuovamente ospitato, per la sua 39esima edizione, tra i padaglioni del polo fieristico bolognese.

Nonostante il periodo di crisi per il mondo del gallerismo italiano, quest’anno si conteranno 216 espositori tra cui 188 gallerie che offriranno alla scena più di 2000 opere; circa il 10% in più rispetto all’edizione dello scorso anno.

Si “respira” arte anche in città. In occasione dell’esposizione la maggior parte delle gallerie d’arte bolognesi parteciperanno alle quattro giornate con delle mostre speciali e l’organizzazione di un esclusivo evento, che si terrà la notte del 24 gennaio: Art White Night. Saranno esposte opere d’arte anche all’interno dei lussuosi negozi di galleria Cavour, con le creazioni di “Food on demand”, curiose rappresentazioni del cibo in età contemporanea.

Per non rischiare di perdersi tutto questo, sarà messo a disposizione un servizio bus gratutito, che darà la possibilità di poter raggiungere tutti i luogi d’arte di Bologna.

Il percorso che si potrà affrontare, sarà articolato in 5 sezioni all’interno dei padiglioni 25 e 26. Sarà nuovamente riproposta l’area tematica dedicata alla fotografia, dove saranno presenti le opere di Fabio Castelli, “Nuove Proposte” con i giovani under 35, la Main Section dedicata alle gallerie, la Focus Est e la sezione Solo Show. Di rilevante importanza tra le iniziative off c’è da segnalare in Pinacoteca la mostra “Too early too late” curata da Marco Scotini, dedicata alla scena artistica mediorientale.

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CHARLIE HEBDO: È CACCIA AI DUE SERIAL KILLER

A Parigi è caccia aperta ai due serial killer, che nella giornata di ieri hanno compiuto un terribile attentato diretto alla redazione della testata satirica Charlie Hebdo. I due sono entrati all’interno della sede del giornale armati di Kalashnikov uccidendo 12 persone, tra questi il direttore, Stephane Charbonnier, e tre vignettisti: Wolinski, Cabut e Verlhac.

Dalle prime indiscrezioni si evince che i due terroristi sono fratelli, di origine franco-algerina, di età compresa tra i 32 e i 34 anni. Subito dopo l’attacco si sarebbero barricati all’interno di un’abitazione sita in una cittadina 70 chilometri a nordest di Parigi. L’auto dei malviventi, una Citroen nera, è stata abbadonata fuori dalla città; all’interno sono state ritrovate delle bandiere con simboli jihadisti e numerose bottiglie molotov.

Nel frattempo è giallo sul coinvolgimento di un possibile terzo complice e autista dell’auto. Infatti, come confermato dalle autorità, sono state fermate 7 persone tra uomini e donne, tra queste Hamyd Mourad. Il mistero sta proprio in questo, poichè non si è ancora in grado di stabilire il reale coinvogimento del diciottenne che si è costituito al commissariato parigino dopo aver letto il proprio nome su diversi media; si potrebbe quindi trattare di un caso di omonimia, in quanto è intervenuto anche un altro liceale, suo collega, assicurando che Hamyd Mourad si trovava in classe al momento della sparatoria.

Parigi, già sotto shock per i recenti avvenimenti, si è svegliata stamane con la notizia di una nuova sparatoria a sud della città. Per ora i due fatti non sembrano correlati, ma tutto ciò non fa altro che alimentare un già diffuso clima di terrore.

Intanto è nato spontaneamente sul web un enorme movimento globale a favore della libertà di stampa, inondando i principlai social network con immagini raffiguranti una matita contrapposta a un Kalashnikov, diventando di conseguenza simbolo della mobilitazione diffusa con l’hastag #jesuischarlie.

Andrea Vessa.

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Il Mate: la bevanda di Papa Francesco

Ma-te. Due sillabe per indicare una famosa bevanda nata nel Sud America, tradizione dei colonizzatori spagnoli dal XVI secolo.

Il mate è un’erba (nota spesso come Yerba Mate) la cui infusione delle foglie produce una bevanda dal colore verde, simile al thè, con proprietà energizzanti, antiossidanti, eccitanti e, nel contempo, disintossicanti.

La cultura del mate è arrivata nel secolo scorso anche in Italia, grazie all’emigrazione italiana in Argentina e si è affermata in Sardegna per il forte e antico legame con Buenos Aires e in alcuni paesini albanofoni del sud, in particolare Lungro, in provincia di Cosenza. A Lungro, infatti, tutti i negozianti vendono quotidianamente confezioni di mate che viene consumato solitamente con la sua ricetta originale e tradizionale: un bollitore, uno zuccotto in sughero, una cannuccia di metallo, acqua caldissima, zucchero e, naturalmente, mate in foglie. Lo zuccotto, come un rituale familiare o tra i vicini di casa, passa da una persona all’altra non appena l’acqua in esso si esaurisce. E poi si ricomincia fino a quando se ne ha voglia. Il mate è una bevanda che si consuma (zuccherata o non) anche al mattino, come infuso al risveglio, o anche freddo, per chi vuole gustarlo come dissetante nelle giornate più calde o dopo un allenamento sportivo.

Forse non tutti avranno ancora capito di quale bevanda si tratta, ma probabilmente in tanti avranno visto la foto che ha fatto il giro del mondo e che ritrae Papa Francesco con in mano lo zuccotto di Mate offerto da un fedele tra il pubblico durante l’Udienza Generale in piazza San Pietro, a Roma.

Il mate, infatti, come il caffè per i napoletani, è una bevanda simbolo per gli Argentini come Bergoglio e viene offerta agli ospiti come solitamente in Italia si offrirebbe un thè o un caffè.

L’immagine di Papa Francesco ha portato molte persone ad avvicinarsi a questa ‘nuova’ bevanda salutare, ricca di proprietà e considerata da molti abitanti di Lungro anche un elisir di lunga vita.

Che sia davvero così?

Loredana Cortese

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Lo sguardo, l’incantesimo più potente del mondo

Non era insolito, nei tempi antichi, ricorrere a numerosi “trucchi” per agevolare l’incontro con una bella donna e trascorrere insieme una notte di passione, fino a cercare il modo per far ricambiare il sentimento d’amore provato o vendicarsi per un amore finito, un’illusione, una speranza inesistente. A quante pozioni, quanti riti si è fatto ricorso in nome dell’amore, quanti sogni, desideri sono sfumati proprio come le erbe, i cibi utilizzati per preparare bevande che avrebbero dovuto risvegliare i sensi, quanti strani “ingredienti” sono bruciati, proprio come gli spiriti ardenti dei giovani amanti, quante speranze si sono riposte in un bicchiere colmo di liquido scuro o in un gioiello, un abito, nel mantello bagnato con sangue di centauro che la dolce Deianira voleva donare al marito, persuasa che fosse un potente filtro d’amore, in realtà si rivelò una velenosissima condanna a morte.
Ogni donna era mossa, nella creazione di pozioni, da un motivo diverso, ma, di fronte alla legge, erano tutte uguali, tutte ugualmente colpevoli di stregoneria, di inganno, di avvelenamento, migliaia di innocenti vennero bruciate vive perché accusate di aver dato ai loro uomini pozioni fatali, nonostante fossero spinte da tutt’altre intenzioni, speravano di recare sollievo ai malati, regalare un attimo di felicità, di piacere, incuranti delle conseguenze tragiche che il loro gesto avrebbe potuto avere. Le pozioni più preparate, richieste, erano quelle afrodisiache, nel desiderio di riuscire a conquistare il cuore della persona amata.
Gli anni sono trascorsi, dalle pozioni si è giunti alle poesie, ai sonetti pieni di dolci promesse, dolci come i baci che gli scrittori speravano di ricevere dalla destinataria della composizione, tutti si confrontano con il tema degli amanti infelici, destinati alla separazione o, addirittura, alla morte. Non è più necessaria una pozione per far innamorare uomini e donne, non esistono più gli amori convenzionali, a Giulietta è sufficiente un ballo per far breccia nel cuore di Romeo, Elizabeth Bennet e Mister Darcy devono combattere contro gli innumerevoli pregiudizi che ostacolano il loro amore, Connie Chatterley rinuncia al proprio matrimonio per ascoltare il suo cuore ed essere guidata fino ad Oliver Mellors, le vicende amorose diventano sempre più intricate, complesse, sogniamo di essere noi le protagoniste di quelle storie così appassionate, vorremmo vivere noi quelle avventure, lottare per amore insieme all’uomo con cui abbiamo scelto di trascorrere la nostra vita.
Infinite vicende sono state raccontate, nel corso dei secoli, infinite coppie hanno ricevuto aiuti da incantesimi, pozioni, oggetti magici, fino ad arrivare a oggi, tempo in cui non si scrivono più lettere, ma messaggi, non più poesie, ma email, non ci si reca più dalla fattucchiera perché prepari un potente filtro che faccia cedere la persona che amiamo, ma dalla commessa del negozio per farsi consigliare il profumo più adatto, non si invita più l’amata a condividere un romantico, lento, ballo sulle note di una dolce melodia, la si invita al ristorante, non si recitano più versi d’amore sotto la sua finestra, le si dedica una canzone, inviandole un video preso da Internet. È vero, i tempi, le abitudini, le idee, le persone sono cambiate, probabilmente un ragazzo che si presenta sotto casa nostra ed inizia a cantare una serenata farebbe ridere, più che innamorare. Eppure, non tutto è cambiato, c’è ancora qualcosa di invariato: lo sguardo. Il momento in cui due persone si guardano negli occhi e si vedono riflesse l’una nell’altra, quel momento di sintonia totale, perfetto, che dura un istante e poi svanisce, quell’attimo in cui ci si perde, si affonda nello sguardo dell’altro e si ha voglia di fare tutto tranne che risalire in superficie, in cui non esiste più nessuno, solo la persona che si ha di fronte, non si avverte più nessun rumore, solo il battito del proprio cuore, in quell’attimo, quel secondo che sembra durare una vita, non si pensa, non si respira, quasi, non ci si muove, non si riesce a parlare, ma non ce n’è bisogno, gli occhi dicono abbastanza … e ci si rende conto che non esiste afrodisiaco più potente dell’ essere innamorati.
Giulia Nicora

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“I primi 99 modi in cui sono stata corteggiata”

E’ stato presentato il 5 novembre scorso presso la Biblioteca Comunale Ex Macello di Porto Viro, in occasione della Fiera del Libro, la prima opera di Barbara Braghin, la stravagante inviata di diverse testate giornalistiche, blogger e cabarettista. Il titolo è “I primi 99 modi in cui sono stata corteggiata”, un libro leggero, da gustare tutto d’un fiato, con 99 aneddoti, storie vere in parte e in parte arricchite con la fantasia.

A dare un tocco originale alle pagine da sfogliare, disegni, foto di momenti di vita e la dama impersonata dall’autrice, Madame Corinne con tanto di parrucca. Un miscuglio di tutto, di vita, di gioventù, di spensieratezza e sorrisi, viaggi, città mondiali, come luoghi del centro America e dei Caraibi, del Marocco e dell’Egitto e città Europee come Londra, Parigi e non solo.

Una serata carina, con conoscenti e amici di Porto Viro, Chioggia, Goro, Cavarzere, Rovigo, Loreo, Taglio di Po e la graditissima presenza del Sindaco di Porto Viro, Giuseppe Geremia Gennari.

La serata è stata organizzata in occasione della Fiera del Libro dall’Assessore alla Cultura Maura Veronese, che ha introdotto il presentatore, il noto speaker radiofonico e scrittore Paolo De Grandis che ha fatto una curiosa intervista all’autrice.

La serata è stata arricchita con dei video sui personaggi interpretati da Barbara e sulla vita mondana di Roma.

In sala si notava, oltre che il Sindaco Giuseppe Gennari, anche Rosalba Capato della Commissione Pari Opportunità del Comune di Porto Viro e Rappresentante della Fidapa di Porto Viro, l’Assessore alla Cultura di Loreo Luciana Beltrame, Layla Maangoni dell’Associazione Taglio di Po nel Cuore, Emanuela Marangoni del CNA di Rovigo, Erika Jackson di Cavarzere, Roberta Bonafè della Protezione Civile di Porto Viro, Valentino Roma ideatore e promotore del Progetto Salva Giovani “La Camera di Decompessione”, Maurizio Ferro manager di Enel di Porto Tolle, Laura Perini organizzatrice di eventi di Chioggia con Valentino un caro amico e altri amici.

Il tutto è stato coronato con il brindisi finale con bottiglie di Prosecco decorate con la foto della copertina del libro, bluette e fuxia.

Barbara Braghin

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LA STORICA AZIENDA VITIVINICOLA ZANETTI PROTONOTARI CAMPI AI TRE GIORNI DEL SANGIOVESE

Inaugura Venerdì 30 Agosto a Predappio la manifestazione dedicata alla valorizzazione del Sangiovese, vino che rappresenta dal punto di vista enologico il simbolo di questa intera area geografica.

Degustazioni, percorsi, musica dal vivo. Un appuntamento unico e un programma ricco di eventi celebreranno l’ottava edizione de “I tre giorni del Sangiovese”.

I protagonisti della kermesse, dedicata alle eccellenze vinicole del territorio, saranno i produttori locali riuniti nell’Associazione per la promozione del Sangiovese di Predappio.
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I partecipanti potranno acquistare un calice e degustare gli ottimi vini delle aziende vitivinicole accompagnando tale momento con l’assaggio di alcuni prodotti tipici della gastronomia romagnola e predappiese.

Inoltre, per avvalorare sempre di più questo evento saranno effettuati, con l’ausilio di sommelier professionisti dell’Associazione Italiana Sommeliers, dei percorsi gratuiti che condurranno i presenti all’avvicinamento della conoscenza e del piacere del vino Sangiovese.
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Tra le aziende vitivinicole che contribuiranno alla creazione di tale evento si segnala l’Azienda Agricola Zanetti Protonotari Campi che, per l’occasione, presenterà il nuovo Sangiovese “Il Garibaldino”.

Un vino dal gusto asciutto e lievemente amarognolo al quale si può abbinare un buon piatto di tagliatelle al ragù o la tipica piadina romagnola per esaltarne e apprezzarne a pieno il sapore.

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American style: cilindri di pancarrè e sottilette

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Un’americanata, di quelle schifezze che ci si schiaffa in una serata a tema, in baldoria con gli amici, magari davanti a una partita, magari guardando una commedia americana, appunto.
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Niente di salutare e di equilibrato in questa ricetta, ma la realizzazione è a prova di scimmia.

Quantità a discrezione propria, secondo la capienza degli stomaci.

Io non credo che riuscirei a ingerire nulla di tutto ciò, ma… Conosco chi apprezzerebbe.

Cosa occorre:

• Fette di pancarrè;

• Sottilette di qualsivoglia genere;

• Ketchup o altra salsa a piacere;

• Burro/olio per friggere;

• Tuorlo d’uovo;

• Pangrattato.
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Preparazione:

Priviamo le fette di pancarrè della parte esterna.

Inumidiamo un canovaccio con acqua, tamponiamo le fette da ambo i lati in modo da renderle “elastiche” per essere poi arrotolate senza spezzarsi.

Appiattiamo le fettine con un matterello.

Sistemiamo una sottiletta su ciascuna fettina.
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Arrotoliamo le fettine di pancarrè su se stesse fino a ottenere tanti piccoli cilindri.

Sigilliamo il tutto con della pellicola trasparente e poniamo in frigo 15- 20 minuti.

Adesso arriva il bello…
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Tolti i rotolini dal frigo, impaniamoli immergendoli nell’uovo sbattuto e poi passandoli nel pangrattato. Ripetiamo l’operazione se vogliamo una doppia panatura.

In una padella versiamo dell’olio o facciamo sciogliere una noce di burro. Friggiamo i nostri rotolini, girandoli con una spatola in legno per farli abbrustolire bene.

Tamponiamo i cilindri con carta assorbente e serviamoli caldi con il ketchup (o altra salsa). Et voilà!

Martina Vecchi

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Gioventù bruciata – James Dean

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Al di là della brillantina e dei capelli cotonati, di quella recitazione un po’ patinata, si parla di un film intenso e drammatico, in cui giovanissimi protagonisti (curiosamente segnati, anche nella vita reale, da un ingiusto e ineluttabile destino) danno voce e vita alle inquietudini di una generazione che, con sollievo o con rammarico, ha molto a che spartire con questa nostra contemporanea.
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Siamo nel 1955, ma potremmo essere nel 2013: giovani annoiati, smarriti, frustrati, famiglie borghesi di genitori superficiali e benpensanti, pallide figure senza spessore, assenza di dialogo tra genitori e figli, questi ultimi alla ricerca di emozioni forti.

Violenza, spietatezza, bullismo, giocare con la morte risulta facile e, anche quando la situazione precipita, non sembra esserci piena coscienza di ciò che accade.

Un film duro, che non lascia spazio ai sentimentalismi, ma ai sentimenti sì: un biondo James Dean poco più che ventenne interpreta Jim Stark, figura positiva e autonoma malgrado i cattivi esempi che la circondano, il personaggio cardine del film, un giovane apparentemente sbandato, il quale in realtà altro non fa che cercare di provocare e ricevere attenzione dal padre, un uomo senza spina dorsale, succube della moglie.
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Jim entra nel giro di alcuni ragazzi scapestrati e violenti, ma non si farà coinvolgere, poiché animato tutto sommato da sani principi e da un proprio solido codice morale.

Saranno la conoscenza di Plato e della bellissima Judy a segnare il suo cammino, fino al tragico epilogo del film.

Una timida speranza è contemplata, però, la possibilità che, dopo tutto il polverone sollevato e tutte le vicissitudini di cui Jim sarà, suo malgrado, protagonista, riusciranno a richiamare all’attenzione il padre, e a far sì che si riallaccino i rapporti col figlio.
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Un cult movie, candidato a numerosi Oscar, rimasto nella memoria collettiva come film “maledetto”, la cui fama è stata altresì alimentata dalla tragica e inquietante morte prematura (anche se in tempi diversi) dei tre protagonisti, James Dean, Natalie Wood, Sal Mineo.

Un film sicuramente da vedere per constatare come, a distanza di tanti anni, le problematiche dei giovani rimangano le stesse.

Martina Vecchi

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GENEZARET: ARGOMENTAZIONI A CARATTERE TEOLOGICO-LITURGICO

Città sempre della Galilea settentrionale, Genezareth è luogo turistico per le meravigliose bellezze naturali e teologiche che essa include dentro di sé.

Vediamo in questo contributo di evidenziarne i tratti specificamente teologici.
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Genesaret diviene il luogo di approdo di Gesù e dei suoi discepoli dopo aver attraversato il mare di Galilea: “Compiuta la traversata, approdarono e presero terra a Genesaret” (Mc 6,53).

Genesaret, denominata anche Tiberiade, è una città della Galilea posta dalla parte nord occidentale dell’omonimo lago.

Approdati a Genesaret, Gesù, insieme ai suoi discepoli, scese dalla barca e la gente “lo riconobbe, e accorrendo da tutta quella regione cominciarono a portargli sui lettucci quelli che stavano male, dovunque udivano che si trovasse” (Mc 6,54-55).

Genesaret è il luogo in cui Gesù realizza la sua missione salvifica per 3 ragioni:

perchè accoglie la gente che gli porta i malati

perchè consente agli indigenti la possibilità di toccarlo: “E dovunque giungeva, in villaggi o città o campagne, ponevano i malati nelle piazze e lo pregavano di potergli toccare almeno la frangia del mantello” (Mc 6,56).

perchè permette ai malati di toccarlo e di guarirlo: “Quanti lo toccavano guarivano” (Mc 6,56).
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Genesaret offre a Gesù lo spazio per accogliere i malati e per toccargli la frangia del mantello al fine di ottenerne la guarigione.

Sotto questo profilo Genesaret diviene il luogo propizio per compiere una vera e propria azione liturgica tesa a sanare gli indigenti; azione liturgica che viene realizzata in parte dal popolo e in parte dal maestro attraverso questi gesti:

la gente vede il maestro. Genesaret permette alla gente di “vedere” Gesù.

La gente accorre da tutta la regione della Galilea. Genesaret acquista il ruolo di essere luogo di ritrovo dei malati.

La gente porta sui lettucci i malati. Genezaret offre lo spazio per mettere i lettucci sulle piazze

la gente si avvicina a lui perchè ha udito che era lì. Genezaret diviene il luogo sonoro della presenza del maestro e della diffusione della notizia che il maestro era lì.

Luogo di supplica. Genezaret è testimone dell’azione supplichevole del popolo che chiedeva a Gesù di potergli toccare almeno il lembo del mantello.

L’azione “tattica” del popolo. La gente tocca il lembo del mantello di Gesù.

L’azione sanatrice di Gesù
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Da ciò si deduce che l’azione liturgica di Gesù, diretta a guarire i malati, è strettamente interconnessa, o meglio dipesa, da quella del popolo, per cui tale azione liturgica sembra essere posta a coronamento di quella voluta e “compiuta” realmente dalla stessa gente: alla richiesta e alla fattiva azione liturgica della gente segue la conseguente e istantanea azione liturgica di Gesù, perchè Gesù guarice subito quanti lo “toccano”.

Sempre a Genezaret i farisei intavolano una discussione con Gesù “avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani immonde, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi (…)” (Mc 7,2-5).

I farisei si attenevano scrupolosamente alla legge, con lo scompenso di trasmettere una liturgia della Parola vuota, perchè fine a se stessa.
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A questa liturgia “letterale” della parola, svuotata del suo senso spirituale, Gesù contrappone quella “spirituale”:

Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Is 29,13).

Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». E aggiungeva: «Siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: «Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte (Mc 7,6-10).

Alla base di una liturgia della parola vuota di senso sta il fatto che questa poggia sulla tradizione degli uomini e non sulla volontà di Dio.

Gesù, alla liturgia della parola compiuta dai farisei a causa della loro fedele osservanza alla “tradizione degli uomini”, oppone una nuova liturgia della parola fondata sul “timore di Dio”, dove l’elemento che contraddistingue questa liturgia è la predisposizione del cuore ad accogliere la volontà di Dio e non quella della tradizione fondata dagli uomini.
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La vera liturgia “spirituale” della parola, proposta da Gesù, prende le mosse dalla cura, dalla attenzione e dal particolare riguardo che il fedele ha nei riguardi di Dio.

Dalla cura, dall’attenzione, dalla profonda riverenza e rispetto che l’uomo ha per Dio; attenzione che deriva dal sottomettere la propria volontà a quella di Dio ne scaturisce una liturgia della parola “piena”, nel senso che la parola trasmette in sé il sentimento cardine del timore di Dio, posta al fondamento di una vera e propria liturgia “spirituale” della Parola.

L’intera vita del credente diviene liturgia della parola, secondo Marco.

Sotto questo profilo Genezaret assume su di sé la caratteristica di essere il luogo in cui Gesù fa nascere la liturgia della Parola di Dio, annullando quella propria dei farisei, perpetuata sulla “tradizione” voluta dagli uomini e non da Dio.
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Sempre a Genezaret Gesù puntualizza che ciò che contamina l’uomo proviene dal cuore e non dall’esterno (Mc 7,14-16).

Gesù ripete la stessa cosa ai discepoli, spiegando loro che “dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi (…)” (Mc 7,21-23).

Alla luce dell’insegnamento del maestro Genezaret diviene il luogo in cui i discepoli imparano che la vita di ogni uomo può diventare una vera e propria liturgia della Parola di Dio se dal suo interno, cioè dal suo cuore, escono intenzioni buone, tese a propagare nel mondo l’amore che il Padre ha avuto verso il Figlio e il Figlio verso tutti gli uomini.

Genezaret diviene testimone del nuovo insegnamento teologico-liturgico del maestro, in relazione al quale i discepoli comprendono che la stessa vita del credente è tesa a divenire, se lo vuole, – cioè se emana dal suo cuore intenzioni positive, dove traspare il fermo proposito di onorare il creatore – tempio di Dio, dove i “segni” liturgici vengono scanditi dal propagare la Parola di Dio e dal compiere buone azioni.

Cinzia Randazzo

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Frittatina al forno con zucchine

Ottima come ricetta “svuota- frigo”, la frittata con le zucchine è un classico della cucina sciué sciué che però, alle volte, può trasformarsi in una prelibatezza elegante e a prova di ospiti!

Ingredienti:

• Tre uova

• 100 g ricotta vaccina

• Parmigiano reggiano come se piovesse (più ce n’è, meglio è)

• Due grosse zucchine o quattro zucchine piccole

• Poco sale e poco olio

• Una grattata di noce moscata
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Preparazione:

Tagliare le zucchine a cubetti o a rondelle, e stufarle in una padella antiaderente con un filo d’olio e un po’ di sale. (Solitamente io salto questo passaggio poiché, quando preparo questa frittata, utilizzo le zucchine avanzate preparate precedentemente come contorno).

Una volta cotte le zucchine, metterle da parte e lasciarle intiepidire.

Sbattere le uova con la ricotta e lavorare bene l’impasto. Aggiungere a pioggia il parmigiano e mescolare.

Grattare un po’ di noce moscata e aggiungere poco sale (il parmigiano è saporito, e le zucchine sono già state salate prima della cottura).

Versare la frittata in una teglia rivestita con carta da forno, e inserire in forno già caldo a 180° per 20 minuti circa. Quando la superficie sarà dorata e brunita, la frittata sarà pronta per essere gustata.

Consiglio n. 1: per evitare che si sbricioli e si sfaldi, lasciamo raffreddare e rapprendere la frittata.

Consiglio n. 2: possiamo aumentare le dosi degli ingredienti (si va un po’ a occhio, come del resto per molte torte salate) a seconda del numero dei commensali o dell’uso che vogliamo fare della frittata, un semplice antipasto o un piatto forte.

Consiglio n. 3: possiamo aggiungere o sostituire alle zucchine ciò che preferiamo. Mi capita spesso di unire un po’ di prosciutto cotto, a cubetti o a striscioline.

Martina Vecchi

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“Sei Cattedrali” nella Rocca di Bazzano

scriventi
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Chi si aspettasse di vederne solo sei, di cattedrali, resterà alquanto deluso e certamente disorientato dinanzi alla copiosità (25 pezzi ca.) di tele e carte del pittore Roberto Rizzoli.

Uno smarrimento che diventerà ancor più tangibile dinanzi alle opere fisiche, e non solo per i soggetti non soggetti rappresentati, bensì per l’assenza di nomenclatura.

Sono parte di un ciclo – motiva Rizzoli – impossibile imbrigliare il concetto in un titolo.
roberto rizzoli, sei cattedrali, rossella regina, coeconews

Un ciclo, quello delle ‘Sei cattedrali’ che racchiude le fatiche dell’artista, bolognese doc, di un quinquennio, dall’88 al ’93.

Fatiche nel senso più vero e tangibile del termine perché l’arte, per Roberto Rizzoli, non è una questione di ispirazione ma è lavoro, sforzo, dipendenza, malattia, concetti ben riassunti in quello che l’artista stesso considera suo Manifesto: un acrilico su tela 275 x 275 che gli è costato sudore e impegno, quasi fosse un figlio più problematico degli altri – commenta scherzosamente.

La tela lascia spazio alla carta, la grafite cede il passo alla china, l’acrilico duetta con la cera e si confronta con tecniche miste.

Complessa, ermetica, affannosa, cervellotica, astratta: si presenta così e sotto tante altre forme, l’arte di Rizzoli.

Eppure la chiave di lettura in quella che emerge essere una perenne ricerca dell’artista nel comprendere i segreti di quell’equilibrio, di quella perfezione, di quell’armonia che caratterizzano l’opera d’arte medesima, motivo unico dell’ispirazione del ciclo, c’è, ed è la ‘cattedrale di Modena’, dinanzi alla quale Roberto non smette mai di estasiarsi e di specchiarsi, per perdersi nel tempo, concetto che ha rincorso, in precedenza, nel ritratto.

Caratterizzate da una decisa bicromia bianco-nera, le ’Cattedrali’ di Rizzoli sono ritratti con tratti diversi – come le definisce lui stesso – la struttura di riferimento è la stessa ma viene sviluppata secondo canoni diversi.
roberto rizzoli, sei cattedrali, rossella regina, coeconews

Classe ’52, con alle spalle una vita giocata tra arte e divulgazione della stessa (Rizzoli è Docente di Grafica presso un Istituto Superiore cittadino), Roberto non ha mai smesso di rispondere a quella sete di meraviglia e di stupore da cui nascono le sue opere, sete che lo scrittore e poeta Roberto Roversi ha saputo ben tratteggiare in una ‘perla inedita’ che Rizzoli stesso divulga per la prima volta attraverso il Catalogo della Mostra.

La composizione che il Prof. Roversi ha dedicato alle mie opere, è per me motivo di particolare orgoglio – ci confessa l’artista, a ca. 40 anni dalla sua prima Personale.

Rossella Regina

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Rossella Regina: ” Dopo il successo di “Got talent”, sono ancora in attesa del grande passo”

Così Rossella Regina, talento calabro-bolognese dal bel canto e la vulcanica verve

Chi, guardando le foto, si sia chiesto se si tratti di lei, non tarderà a rendersi conto del fatto che, nonostante il doppio cambio di abito e location, la parrucca e gli occhiali sono proprio quelli della finalista di Italia’s got talent 2013, Rossella Regina.
rossella regina, intervista, italia’s got talent 2013, coeconews
Foto di Merli, Ruggeri, Sangiorgi, Tosi

Barcamenatasi di recente tra interviste ed eventi live, e attualmente alle prese con variegati shooting che la vedono al centro delle ambientazioni più esclusive, oltre che con in dosso abiti eccezionali (la location degli scatti in questione è l’Antico Borgo dei Boschi di Bisano di Monterenzio, in provincia di Bologna, una tenuta di 90 ettari comprendente un borgo di casali del 1600, oggi agriturismo, oltre che azienda agricola, circolo sportivo dilettantistico, servizio di pensione e addestramento canino e allevamento di lagotti, cani da tartufo; gli abiti sono, invece, del celebre Scissorlab, sartoria teatrale bolognese che ha all’attivo centinaia di collaborazioni con artisti del calibro di Zucchero, Sting e Polansky), Rossella attende ancora di poter fare il ‘grande passo’, quello che le consentirebbe di dedicarsi esclusivamente all’attività artistica.
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Foto di Merli, Ruggeri, Sangiorgi, Tosi

Ma forse alla fine, mi mancherebbe anche quel tran tran quotidiano fatto dei ritmi che tutti conosciamo – commenta l’ilare calabra d’adozione bolognese – …la sveglia, le corse mattutine, i ritagli di tempo libero nei quali incastonare a pioggia i vari incontri ‘extra’, tra amici e contatti artistici…Sono sicuramente una che nel tempo libero ha bisogno di fare quante più cose possibili perché la nullafacenza rilasserà pure, ma a me stressa di brutto! – conclude con immancabile ironia.
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E mentre ci elenca le date delle sue prossime apparizioni pubbliche, che l’hanno già vista nel piemontese e presto in Puglia (12 luglio) e in Trentino (10 agosto), la cantante-cabarettista che ha stupito per il suo talento tanto i giudici di gara (Maria De Filippi, Rudy Zerbi e Gerry Scotti) quanto il pubblico a casa, ci rivela qualche simpatico aneddoto relativo alla finale del programma, che la ha vista, attorniata da otto prestanti ballerini in smoking, prima, venir fuori da una gigantesca conchiglia dorata ripiena di palloncini sulle note di ‘Vorrei che fosse amore’ di Mina, poi, accomodarsi leziosamente nell’angolo di un salottino kitsch accennando ‘Come tu mi vuoi’ della medesima interprete:
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In occasione della finale, a causa sia del freddo del dietro le quinte della semi-finale (a tal proposito ricordo che Simone Annicchiarico, passando dietro al palco, mi vide seduta su di un divano, sotto il tiepido fascio di luce di un mega-faro cinematografico, nel vano tentativo di coprirmi con un telo rosso, lasciato lì da qualcuno esibitosi prima di me…Si avvicinò e dopo avermi chiesto in un romanesco da manuale ‘Ma che stai a ‘ffa’, si chinò per aiutarmi a coprirmi meglio), sia per il fuggi-fuggi tra Roma e Bologna, casa-ufficio-stazione, ecc. ecc. rimasi, insomma, senza voce, proprio quando mi sarebbe servita. Ciò fece sì che non riuscii mai a provare il brano con il Maestro Vessicchio.

La sera della prova generale, incontrai per caso il Maestro in corridoio e lui volle controllarmi, quasi fosse un medico, il collo…’Tu non ti preoccupare’ – disse – ‘stai rilassata’.

Picchiettò con le dita sui lati del collo, idem in corrispondenza della nuca, poi enunciò ‘Sono sicuro che sarà un success. Tu canta come hai sempre fatto. Mi gioco la reputazione’.

E un successo vero è stato, per la 34enne di Laino Borgo, piccolo comune dell’entroterra cosentino, che si augura nuove opportunità di settore a partire da settembre: Ormai le trasmissioni le ho fatte quasi tutte – commenta scherzosamente – mancherebbe giusto ‘Chi l’ha visto?’

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Il gigante sfregiato

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E’ uscito il primo giallo del grande sceneggiatore e produttore cinematografico italiano, Enrico Vanzina, intitolato “Il gigante sfregiato”.

Il protagonista è Max Mariani era un avvocato della Roma-bene, con una Porsche fiammante e una casa nei quartieri alti.

Adesso è uno scalcinato detective privato che vive di espedienti, beve litri di vodka e ha un debole per le ragazze facili.

Eppure ha fiuto, e per risolvere un caso è il migliore sulla piazza.
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Quando un ex rugbista con la passione per le risse chiede il suo aiuto, Max non esita neanche un secondo: il gigante sfregiato, di nome Sandrone, vuole sfuggire a una donna senza scrupoli, decisa a farlo fuori.

E poco importa se quella bionda con la passione per i soldi facili e qualche nemico di troppo offrirà un lauto compenso proprio a Mariani per trovarle Sandrone.

Già, perché Max è fatto così: è avido, cinico e arrogante, e soprattutto adora ficcarsi nei guai, meglio se accompagnati da un mucchio di soldi.
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Enrico Vanzina, sceneggiatore e produttore. Figlio di Steno, insieme al fratello Carlo è vissuto nel mondo del cinema fin dall’infanzia, frequentando abitualmente personaggi del calibro di Totò, Ugo Tognazzi, Mario Monicelli, Ennio Flaiano, Mario Camerini e Dino Risi, i cui figli Marco e Claudio sono loro amici d’infanzia.

Dopo aver frequentato la scuola francese Chateaubriand di Roma, diplomandosi nel 1966, si è iscritto a Scienze Politiche all’Università di Roma laureandosi nel 1970.

L’esordio nella carriera cinematografica risale al 1974 come aiuto regista del padre nel film “La poliziotta”.
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Nel 1976, ha iniziato a scrivere sceneggiature e da allora ha collaborato con i maggiori esponenti della commedia all’italiana. Nel corso degli anni ’80 e ’90 ha firmato insieme al fratello i più grandi successi al botteghino italiano, film molto amati dal pubblico ma spesso stroncati dai critici nostrani.

Nel 1986 ha fondato, sempre con il fratello Carlo, la casa di produzione Video 80 e da allora oltre alla produzione cinematografica si è dedicato anche a quella televisiva (“I ragazzi della III ^ C”, 1986; “Amori”, 1987; “Anni ’50”, 1998; “Anni ’60”, 1999).

Nei primi anni ’90 ha collaborato con la Penta Film. Ma il cinema non è la sua unica occupazione. Ha scritto la pièce teatrale “Bambini cattivi” portata in scena da Giuseppe Patroni Griffi.

Ha collaborato per diversi anni con Il Corriere della Sera e Il Messaggero, ha portato in stampa i libri “Le finte bionde”, “Colazione da Bulgari” e “La vita è buffa” e tiene corsi di sceneggiatura.

Barbara Braghin

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Archimede. Arte e scienza dell’invenzione

Archimede, ingegno del III secolo a.C. non era mai stato raccontato in una mostra. E i Musei Capitolini, fino 12 gennaio 2014 riveleranno, nell’esposizione “Archimede. Arte e scienza dell’invenzione”, i tanti aspetti del geniale scienziato siracusano illustrando lo straordinario contributo che hanno dato le sue indagini ed invenzioni alla conoscenza del mondo antico e dei secoli a venire.

La tradizione storiografica attribuisce ad Archimede l’invenzione delle macchine che ritardarono la caduta di Siracusa assediata dai Romani e di congegni come l’orologio ad acqua, il planetario meccanico, la vite idraulica.
Un percorso affascinante, arricchito da una selezione di reperti archeologici, che aiuteranno a capire l’ambiente in cui visse e operò Archimede e che accompagnerà il visitatore all’interno di otto sezioni:
Siracusa, la città di Archimede, racconta, attraverso reperti originali, ricostruzioni, modelli funzionanti e applicazioni multimediali, lo splendore di Siracusa nel III secolo a.C. Siracusa e il Mediterraneo. I due principali centri del Mediterraneo per lo sviluppo del sapere scientifico e tecnico descritti da reperti archeologici e apparati multimediali. Archimede e Roma. Momento epocale per il mondo antico l’uccisione di Archimede da parte dei Romani durante l’assedio di Siracusa. Proprio a Roma si creano le condizioni per la nascita di un vero e proprio mito legato alla vita e alle opere di Archimede.

Archimede e l’Islam. la civiltà islamica – che gli attribuisce l’ideazione di congegni di straordinaria efficacia – studia e commenta alcune delle opere di Archimede. La riscoperta di Archimede in Occidente. Artisti, studiosi e principi gareggiano per il possesso delle opere del siracusano, oggetto di ricerche da parte dei collezionisti, segnando un punto di svolta per la ripresa delle indagini di matematica e geometria.
Leonardo e Archimede. L’interesse degli artisti nei confronti di Archimede è provato anche da un codice con i trattati di Archimede con annotazioni di Piero della Francesca. Galileo e Archimede. L’opera di Archimede costituisce un costante punto di riferimento per Galileo che, nel corso della sua carriera scientifica, considererà il Siracusano un esempio da imitare. La geometria di Archimede. In questa sezione si celebrano le geniali intuizioni geometriche e meccaniche di Archimede.

Barbara Braghin

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La gloria nel vangelo di Giovanni

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Partendo dal significato della gloria, intesa come fama e onore universali, attribuite a persone che hanno ottenuto una grande rinomanza per contraddistinguersi in azioni insigni, vediamo in questo contributo di delinearne i tratti essenziali in relazione alla gloria di Cristo e dei credenti in lui nel vangelo di Giovanni.
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La rivelazione della gloria di Cristo

I miracoli

Secondo la testimonianza di Giovanni in 2,11 i miracoli, che Gesù iniziava a compiere a Cana di Galilea, erano segni che manifestavano la sua gloria: “Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli (σημείων) in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11).

I miracoli testimoniano l’eccelsa figura del Salvatore e la sua indiscutibile signoria e supremazia sulle forze del male e della natura. La sua impareggiabile potenza su tali forze, manifestata nei miracoli, produce nei discepoli la fede in lui.

I discepoli credono in lui, nella sua reale incarnazione in forza della sua potenza che scaccia ogni tipo di male.

La fede quindi è conseguente al miracolo, perchè grazie al miracolo essi si rendono consapevoli e certi della sua potenza, in quanto tutte le cose obbediscono a lui e a lui solo si sottomettono.

La gloria quindi si estrinseca nella incarnazione del Verbo perchè, in forza della sua umanità, egli può rendere visibile a tutti la sua suprema potenza su tutte le cose.

Egli così attua la gloria mediante i miracoli che divengono segno concreto e tangibile del compimento terreno della sua gloria, che dapprima era eterna nel seno del Padre (Gv 17,5).

Mentre nel caso dei discepoli, la loro fede è posta come conseguenza della manifestazione della gloria di Gesù nel miracolo, nel caso della sorella di Lazzaro, la fede viene ad esserne la causa del miracolo, perchè in essa ella vede la gloria del Verbo fattosi carne:

Le disse Gesù: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?” Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato.

Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perchè credano che tu mi hai mandato. E detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori”!.

Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolte in bende, e il volto coperto da un sudario (Gv 11,40-44).
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La sorella di Lazzaro Marta vede il miracolo in forza della sua fede ma, sempre a proposito di questo episodio, la fede ritorna ad avere il ruolo secondario perchè, a detta di Gesù, proveniente dal miracolo (Gv 11,42).

La gente crede, in quanto si sviluppa in lei la fede al momento in cui Gesù compie il miracolo della risurrezione di Lazzaro.

La fede viene ad avere un duplice ruolo in relazione al miracolo di Lazzaro:

diviene causa del miracolo per la sorella di Lazzaro e consegue al miracolo sia per la gente che per i discepoli.

Queste ambedue facce della fede – la prima antecedente e l’altra conseguente al miracolo – attestano la gloria di Dio che si è manifestata nel miracolo compiuto dal Figlio, perchè, in forza della fede, il Figlio viene glorificato attraverso il miracolo sia da Marta, dai discepoli che da tutta la gente del luogo: “All’udire questo Gesù disse: Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio perchè per essa il Figlio di Dio venga glorificato” Gv 11,4.

Il miracolo della risurrezione di Lazzaro diviene dunque il luogo della manifestazione della gloria del Padre e del Figlio, grazie alla fede dei credenti e anticipa la pienezza della gloria del Figlio, che si realizzerà con la sua risurrezione che non ha fine perchè eterna.

La gloria si compie in pienezza con la risurrezione di Cristo, della quale quella di Lazzaro non è altro che segno, perchè con Cristo cessa per sempre la morte e ha inizio la vera vita, quella eterna.

Parallelamente alla malattia di Lazzaro, sopravvenuta perchè venisse glorificato Dio attraverso il Figlio, allo stesso modo la cecità di un uomo fin dalla nascita sopravviene, perchè si realizzino su di lui “le opere” di Dio, in modo tale che Dio venga glorificato nel Figlio mediante il segno della guarigione dalla cecità (Gv 9,1-3).

L’espressione “opere di Dio” è simile a “segni” che Giovanni aveva impiegato in 11,4, perchè è attraverso i segni concreti, ossia i gesti del Figlio, che si compiono le opere del Padre.

Il Figlio si serve dei “segni” per rendere concrete le opere del Padre: infatti egli per guarire il cieco si avvale della terra e della saliva.

Dall’impasto di questi due elementi concreti Gesù forma il fango e spalmandolo sugli occhi del cieco ridona a lui la vista, dopo che lo inviò a lavarsi nella piscina di Siloe (Gv 9,6-7).

Questo miracolo è stato compiuto da Gesù avvalendosi delle opere che Dio aveva creato fin dall’origine del mondo: la terra che esisteva fin dalla creazione del mondo e la saliva di cui Dio aveva dotato il primo uomo fin dalla creazione del mondo.

Con questi elementi fisici Gesù realizza il miracolo perchè venisse creduto dalla gente di essere il figlio dell’uomo, nonostante la persistente incredulità dei farisei.
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Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse:«Tu, credi nel Figlio dell’uomo?».

Egli rispose:«E chi è, Signore, perchè io creda in lui?».

Gli disse Gesù:«Lo hai visto: è colui che parla con te» Ed egli disse: «Credo, Signore!».

E si prostrò dinanzi a lui.

Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perchè coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi».

Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?. Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (Gv 9,35-41).

Il miracolo della guarigione del cieco nato dunque è stato compiuto da Gesù, parallelamente a quella di Lazzaro, perchè in coloro che lo vedono si attecchisca la fede in lui, affinchè venga glorificato il Padre nelle opere compiute dal Figlio.

In Gv il verbo vedere reca in sé non solo un significato fisico, ma anche spirituale: coloro che vedono fisicamente le opere compiute dal Verbo, le vedono con gli occhi della fede, perchè senza la fede vana sarebbe la loro visione alla stessa stregua dei farisei (Gv 9,41).
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I credenti

Giovanni esordisce il suo vangelo con la venuta del Verbo nella carne; Verbo che era presso Dio perchè era Dio (Gv 1,1-2) e in lui era la vita perchè tutto quanto esiste è stato fatto per suo tramite (Gv 1,3).

La venuta del Verbo comporta per l’uomo, secondo la versione di Giovanni, l’accoglimento o il rifiuto. A quanti l’hanno accolto e credono nel suo nome ha dato il privilegio di divenire figli di Dio e di vedere la sua gloria:

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre” (Gv 1,14).

La fede, cioè l’accogliere la Parola del Verbo, diviene la condizione senza la quale non è possibile percepire la sua gloria, ossia la sua eccelsa potenza e priorità su tutto quanto ha creato. Solo i credenti sono per Giovanni i diretti testimoni della sua gloria terrena, perchè già sulla terra il Verbo compiva prodigi che mai nessun uomo, nato tramite una donna, avrebbe potuto compiere.

La gloria appartiene solo al Verbo perchè è l’unico figlio tra tutte le creature umane, nato da donna e generato dal Padre, in quanto “unigenito dal Padre”.

Il verbo vedere indica non solo la percezione fisica della gloria del Verbo, ma soprattutto quella metafisica, metastorica che avviene mediante la fede, tramite la quale il credente accoglie la venuta dell’unigenito, considerandolo come un evento eccelso e degno di eminente importanza perchè unico e irripetibile.

Chi accoglie la venuta del Verbo onora lui e anche il Padre che lo ha inviato (Gv 5,23).

Il Padre, secondo Giovanni, viene glorificato da coloro che credono alle parole del Verbo, diventando discepoli diretti della sua Parola, alla stessa stregua del tralcio che, rimanendo attaccato alla vite, porta frutto, altrimenti muore:

Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore.

Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perchè la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena (Gv 15,7-11).
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L’amore vicendevole dei credenti, causato dalla fede nel Verbo, è il motore che produce nella vita dei fedeli una grande gioia, appannaggio vivente della gloria del Padre, perchè nell’amore, dal quale scaturisce la gioia, viene glorificato il Padre celeste.

Come per amore Dio fece il mondo tramite il Figlio, contemplando nella gioia il frutto del suo operato, allo stesso modo l’uomo, amando il Verbo e osservando i suoi comandamenti vive nella gioia, perchè sa di rendere, con questo suo operato, gloria al Padre.

Prima dell’arresto Gesù, nella sua preghiera al Padre, manifesta la sua consapevolezza riguardo a coloro che hanno creduto alla Parola del Verbo perchè essi, sulla base del fatto che hanno creduto che Egli proviene dal Padre e che il Padre lo ha inviato a tale scopo, glorificano a loro volta il Verbo:

Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perchè le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato.

(Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perchè sono tuoi).

Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro (Gv 17,7-10).

Sempre in questa preghiera Gesù chiede al Padre che quanti crederanno nel suo nome sappiano che il Padre li ha inviati e che li ha amati come Egli ha amato il Verbo, in modo tale che essi siano tra loro uniti col Padre, sulla base del fatto che hanno ricevuto la gloria dal Verbo che a sua volta gli era stata data dal Padre (Gv 17,22-23).

L’unione del Padre col Figlio si riflette a livello umano nella gloria che i credenti hanno ricevuto dal Verbo grazie al Padre che glielo ha concesso, perchè nella gloria i credenti si riconoscono uniti come i tralci in un’unica vite.

Ancora una volta Gesù chiede al Padre che quanti hanno creduto, abbiano il privilegio di contemplare la gloria che il Padre gli ha dato, perchè il Padre ha amato il Verbo ancora prima che il mondo venisse creato (Gv 17,24).

La gloria che il Padre ha dato al Verbo è appannaggio dell’amore del Padre verso il Figlio.

La gloria del Verbo si identifica in Gv nella zampillante condiscendenza del Padre nei confronti del Figlio, perchè fin dall’eternità l’amore del Padre traboccava nel Figlio e mai si consumava.

L’amore che il Verbo contemplava fin dall’eternità, glorificando il Padre, viene rivissuto da Pietro nell’esperienza suprema del martirio, per mezzo del quale viene glorificato Dio: “Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi»” (Gv 21,19).
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La glorificazione di Dio in Cristo

Secondo la testimonianza di Giovanni Gesù, in quanto inviato del Padre, rende gloria al Padre perchè professa la dottrina stessa del Padre. Egli conosce le Scritture perchè sapienza del Padre, e in ciò il Padre viene glorificato, diversamente dalla sapienza umana che riceve gloria da se stessa (Gv 7,14-18).

Infatti coloro che ricevono gloria dagli uomini, non credendo che il Verbo è venuto nel nome del Padre, non cercano la gloria che proviene solo da Dio (Gv 5,41-44). In quanto inviato dal Padre Gesù detiene la potenza del Padre stesso.

A proposito dell’episodio della malattia di Lazzaro, la malattia viene sconfitta da Gesù che è datore di vita, alla stessa stregua del Padre, in quanto da lui ha ricevuto tale potere, per cui la malattia ha posseduto Lazzaro in vista della sua dipartita da questo, affinchè fosse glorificato il Padre tramite il Figlio dal momento che Dio ha dato al Figlio tale potere: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perchè per essa il Figlio di Dio venga glorificato” (Gv 11,4).

In forza dell’unità che sussiste tra Padre e Figlio, qualunque cosa viene chiesto al Figlio, egli la concederà, perchè le opere che il Figlio compie, le compie grazie al Padre che ha accordato al Figlio tale privilegio, per cui il Padre viene glorificato tramite il Figlio per i prodigi che realizza: “Qualunque cosa chiederete nel mio nome lo farò perchè il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò” (Gv 14,13-14).

Come il Padre è intimamente legato al Figlio fin dall’eternità, così coloro che amano il Verbo e credono nel suo nome, realizzano le opere del Padre a guisa del Verbo e, divenendo suoi discepoli, glorificano il Padre.

Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore (Gv 15,7-9).

Nel contesto della passione Gesù prega il Padre di essere glorificato ora, affinchè il Figlio lo glorifichi, ricordandogli che egli lo ha glorificato sulla terra adempiendo il suo mandato nel realizzare l’opera che gli ha comandato di fare: “Quindi, alzati gli occhi al cielo, disse:«Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perchè il Figlio glorifichi te (…).

Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare” (Gv 17,1.4).
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La glorificazione del Figlio nel Padre

Secondo Giovanni la glorificazione completa del Figlio avviene quando egli invierà il Paraclito a coloro che credono nel suo nome perchè, con l’invio dello Spirito, Gesù siede glorioso alla destra del Padre, contemplandone la sua gloria infinita: “Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c’era ancora lo Spirito, perchè Gesù non era stato ancora glorificato” (Gv 7,39).

Gesù invia lo Spirito nel mondo perchè egli, avendo ricevuto la gloria dal Padre, non è presente tra i credenti col corpo, ma attraverso il suo Spirito, per cui la gloria del Figlio risplende nell’alto dei cieli così com’è, in quanto non è velata dall’incredulità dei giudei e né viene percepita solo dalla fede, manifestandosi tale e quale nella sua essenza come lo era ab aeterno, prima della creazione del mondo.

Tornando alla sua vita terrena, Gesù afferma davanti ai giudei che egli non glorifica se stesso, ma è il Padre che lo glorifica, perchè il Figlio onora il Padre, lo conosce e osserva la sua parola, diversamente dai giudei che presumono di conoscere il Padre mentre invece non lo conoscono affatto:

Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica. Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla.

Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: “È nostro Dio!”, e non lo conoscete.

Io invece lo conosco. Se dicessi che non lo conosco, sarei come voi: un mentitore. Ma io lo conosco e osservo la sua parola (Gv 8,50.54-55).

I discepoli non compresero il tumulto della folla che andò incontro a Gesù al suo rientro in Gerusalemme e neanche la profezia di Zc 9,9ss. che annunciava l’ingresso del re dei Giudei su un asinello se non quando Gesù fu glorificato (Gv 12,16).

La gente del luogo si ricordava del miracolo di Lazzaro che Gesù aveva compiuto; per questo gli andava incontro, in quanto quel miracolo era segno della sua futura glorificazione che si adempì nell’ora della sua passione, come annunziato da Gesù stesso:

È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato (…)Se uno serve me, il Padre lo onorerà.

Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!» (Gv 12,26-28).
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Nonostante che Gesù abbia compiuto molti miracoli, i giudei rimanevano increduli perchè si adempissero le Scritture, come aveva detto Isaia:

Sebbene avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in lui, perchè si compisse la parola detta dal profeta Isaia:«Signore, chi ha creduto alla nostra parola? E la forza del Signore, a chi è stata rivelata?» Per questo non potevano credere, poiché ancora Isaia disse: «Ha reso ciechi i loro occhi e duro il loro cuore, perchè non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore e non si convertano, e io li guarisca!»

Questo disse Isaia perchè vide la sua gloria e parlò di lui. Tuttavia, anche tra i capi, molti credettero in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga. Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio” (Gv 12,37-41).

Il riconoscimento della gloria di Cristo da parte dei capi della sinagoga veniva bloccata dal diniego dei farisei, che si opponevano a tale tipo di omologazione (Gv 12,41-43).

La glorificazione del figlio dell’uomo è causata dalla piena dedizione del Figlio a compiere la volontà del Padre e a servirlo come Lui vuole, per questo dopo che Giuda Iscariota prese il suo ultimo boccone Gesù è stato glorificato dal Padre (Gv 13,31-33) e viceversa.

Nel tradimento di Giuda Gesù restò fedele all’amore del Padre, adempiendone la sua volontà; per questo il Padre lo ha glorificato e, a sua volta, il Padre veniva glorificato in lui.

Quando verrà lo Spirito di verità glorificherà il Figlio perchè annunzia le cose che prende dal Figlio, come il Figlio compie tutto quello che il Padre gli ha riferito (Gv 16,13-14).

La gloria che il Padre ha dato al Figlio, egli l’ha fatta fruttificare, dandola ai credenti perchè divenissero una cosa sola, come il Padre lo era con il Figlio, in modo che essi fossero convinti che il Padre ha inviato il Figlio e che lo ha amato con lo stesso amore con cui Egli ha amato loro (Gv 17,22-23).

Precedentemente, nella sua preghiera al Padre, il Figlio gli chiede di essere glorificato con quella gloria che aveva ab aeterno prima che il mondo venisse creato, dal momento che egli ha glorificato il Padre sulla terra in quanto egli ha ricevuto il potere sopra ogni essere umano, affinchè ogni uomo pervenga alla conoscenza di Dio e di Cristo suo figlio:

Così parlò Gesù. Poi, alzati gli occhi al cielo, disse: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perchè il Figlio glorifichi te. Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perchè egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato.

Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo.

Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse (Gv 17,1-5).

Prima della sua passione, Gesù chiede che venga glorificato dal Padre come quando godeva della sua gloria prima della creazione del mondo.

Il Padre ab aeterno aveva dato lo splendore della sua gloria al Figlio perchè, generato dal Padre, aveva dato al Figlio il potere su ogni cosa, detenendo la sua supremazia su tutte le cose, in quanto sapienza stessa del Padre.

Egli condivideva la gloria del Padre ed era insignito di tale gloria perchè consigliere eterno del Padre, in quanto con lui si era confidato e aveva affidato i suoi disegni, affinchè fossero realizzati solo da lui, l’unigenito del Padre.

Cinzia Randazzo

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Le Autostrade del Mare

Quasi sempre, i trasporti di merci avviene sulle strade o aule autostrade. Ma, visto che l’Italia e l’Europa sono bagnate dal mare, è bene utilizzare anche nuovi mezzi e nuovi percorsi. Ecco allora le Autostrade del Mare che costituiscono una valida alternativa al trasporto stradale ed un’eccezionale opportunità per lo sviluppo sostenibile dei paesi bagnati dal Mediterraneo.

Le Autostrade del Mare sono percorsi alternativi alle strade d’asfalto e rappresentano (per un paese dalla particolare configurazione geografica come l’Italia) la maggiore opportunità di trasformazione della mobilità delle merci; collegano i porti più attrezzati e più importanti per il traffico delle merci e vengono servite da traghetti dedicati ad esse.
Un autotrasportatore, invece di attraversare l’Italia da Nord a Sud o viceversa, può imbarcarsi su una delle numerose linee marittime che compongono il quadro delle Autostrade del Mare e raggiungere la sua meta evitando traffico, stanchezza eccessiva, inquinamento e consumo del proprio mezzo.
I costi via mare corrispondo a meno della metà di quelli via terra e comunque inferiori alla spesa viva del solo gasolio. E comunque, al risparmio effettivo per gli autotrasportatori corrisponde un vantaggio concreto per la sicurezza e il traffico stradale di tutti i cittadini. Le Autostrade del Mare italiane attualmente attive sono: Catania-Civitavecchia; Catania-Livorno; Catania-Genova; Catania-Napoli; Catania-Ravenna; Messina-Salerno; Palermo-Civitavecchia; Palermo-Genova; Palermo-Napoli; Palermo-Salerno e viceversa (oltre a tutte quelle attive fra il continente e la Sardegna). Quelle internazionali sono: Barcellona-Genova; Barcellona-Palermo; Barcellona-Civitavecchia; Valencia-Genova; Tolone-Civitavecchia; Tunisi-Genova; Tunisi-Livorno; Tunisi-Civitavecchia; Tunisi-Napoli.

Le autostrade del mare oltre a ridurre il traffico su strade e autostrade, permetterebbe anche di diminuire sensibilmente l’inquinamento atmosferico e soprattutto di realizzare un risparmio economico nel trasporto delle merci.
In Italia è previsto un ecobonus alle società armatrici, che serviranno a diminuire ulteriormente le tariffe di trasporto, rendendo così agli autotrasportatori una maggiore convenienza di trasporto rispetto ai costi da sostenere sulle vie di terra. E’ di estrema importanza la diffusione e l’uso delle Autostrade del Mare per una serie di importanti motivi.
Il più importante è quello di contribuire a decongestionare il traffico su strada; poi per migliorare la sicurezza sulle strade; tutelare l’ambiente; migliorare le condizioni di lavoro degli autotrasportatori. Negli ultimi anni c’è stato un aumento costante di questo tipo di trasporto, notando una crescita nelle statistiche. E poi, si ammirano bellissimi panorami e, perché no, meglio provare!

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ESPRESSIONI E ATTEGGIAMENTI DEI NUOVI E VERI TIMORATI DI DIO

Nel precedente contributo abbiamo colto i tratti essenziali dell’identità socio cultuale dei timorati di Dio, mentre ora ci accingiamo a illustrarne le forme orali e quelle di recezione psico-sociali; forme che consentono ai futuri timorati di Dio di vivere più pienamente il loro culto a Dio. Tali forme saranno da sprone per tutti coloro che intendono vivere la propria fede in Cristo, così com’era voluta dal fondatore, al di là delle sovrastrutture e della stessa impalcatura ecclesiale che la chiesa si è man mano costruita nel tempo, creando un potere burocratico di forte intensità a scapito del primordiale e genuino timore di Dio.

Quando Paolo e Barnaba giunsero a Salamina “cominciarono ad annunziare (κατήγγελλον) la parola di Dio nelle sinagoghe dei Giudei, avendo con loro anche Giovanni come aiutante” (Atti 13,5). Il verbo καταγγέλλω significa annunciare e tale verbo in Atti 13,5 è usato da Luca per indicare che Paolo e Barnaba hanno il dovere di attenersi il più possibile conformemente (κατά) al contenuto del messaggio, affinchè questo venga predicato secondo il giusto senso voluto da Dio. La predicazione di Paolo è appunto finalizzata alla credibilità del kerygma in modo che, nei “credenti in Dio” che erano presenti nella sinagoga (timorati), questa producesse frutto.
Al loro approdo a Antiochia di Pisidia Paolo, insieme ai suoi compagni, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, si sedettero”. Dopo la lettura della Legge e dei Profeti, i capi della sinagoga mandarono a dire loro: «Fratelli, se avete qualche parola di esortazione per il popolo, parlate!». Si alzò Paolo e fatto cenno con la mano disse: «Uomini di Israele e voi timorati (φοβούμενοι) di Dio, ascoltate (…) (Atti 13,14-16).
Ad Antiochia di Pisidia Paolo, dopo essere entrato in sinagoga, fu accolto dai capi della sinagoga, i quali lo invitarono a parlare. Paolo, approfittando di tale occasione offertagli, si rivolge ai timorati di Dio e ai giudei affinchè ascoltino il kerygma. Egli palesa sia ai timorati di Dio che ai figli della stirpe di Abramo, che il kerygma è stato inviato dall’alto, perchè non proviene dall’uomo ma da Dio:
Fratelli, figli della stirpe di Abramo, e quanti fra voi siete timorati di Dio, a noi è stata mandata questa parola di salvezza” (Atti 13,26). Infatti Paolo prosegue affermando che i capi che hanno condannato a morte Gesù “hanno adempiuto le parole dei profeti che si leggono ogni sabato; e, pur non avendo trovato in lui nessun motivo di condanna a morte, chiesero a Pilato che fosse ucciso (Atti 13,26-28).

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Moonassi:il filo sottile tra la Luna e l’essenziale

In cinese e in coreano Moona significa “non c’è un io”. E in effetti, nei dipinti di Moonassi, giovane artista coreano, manca un io definito.

Tante identità dedite a cercare e a scavare in un universo vacuo, ma non angosciante. Anzi.

L’essenziale tranquillità che traspare dalle opere di Moonassi rimanda molto alla cultura orientale che lo influenza, cultura che però non irretisce le opere fino a etichettarle.
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Un’opera di Moonassi comunica un’intima e inconsapevole familiarità.

E’ come se parlasse a ciascuno di noi, o meglio, ai nostri sogni più reconditi, al cospetto della Luna (un volto nascosto?).

Due colori soli, il bianco e il nero, e infinite possibilità di essere noi stessi o chiunque altro, ovunque nell’universo, in uno spazio indefinito.

Raffigurazioni enigmatiche, ma anche stranamente e straordinariamente semplici e affettive, che incuriosiscono e intrigano, sconcertano e rassicurano.

Un artista particolare, da seguire e scoprire con interesse.

Martina Vecchi

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“NON ABBIATE PAURA”, Paolo Crepet parla ai giovani

In una delle sue numerose conferenze, lo psichiatra Paolo Crepet ha parlato all’interno delle rosate mura dalle tinte pastello del piccolo e accogliente teatro “Cassero” di Castel san Pietro Terme.

Nato a Torino nel 1951, Crepet è uno dei personaggi di spicco nel campo della psichiatria italiana, oltre che essere pungente curatore di rubriche per i giovani e presenza assai richiesta nei talk show televisivi.
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L’argomento della serata aveva come titolo “Senza paura”.

Un monito forte che ha dato il via a una lunga serie di riflessioni.

Il professore, durante tutta la serata, ha coinvolto i numerosi presenti con pensieri taglienti e precisi: le giovani generazioni sono insoddisfatte del mondo in cui vivono, ma la maggior parte non fa nulla per cambiare la propria situazione.

L’atteggiamento pessimistico dei giovani, ha spiegato il professore, è una conseguenza inevitabile del pessimismo catastrofico delle generazioni precedenti, della visione nera di una crisi senza fine, di genitori che riversano le proprie paure su figli, che per questo crescono pieni di paure, chiusi nel proprio guscio, protetti come pulcini sotto la chioccia e spaventati dal mondo.
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Questa troppa tutela, questa troppa paura dei grandi fa regredire i giovani, li rende incapaci di vedere un futuro.

“Chi lascia la strada vecchia per quella nuova sa quel che perde, ma non sa quel che trova”. E invece è proprio la strada nuova che deve essere intrapresa, Crepet in questo è stato chiaro.

Li si deve far provare, li si lasci perdere su strade sterrate, li si lasci cadere: si rialzeranno più forti e agguerriti di prima.

Le giovani generazioni sono tenute ad avere un futuro, è un loro diritto: non si lascino marcire in un ozio di comodità, li si aiuti a reagire, a lottare, a crearsi il futuro. In Italia manca il lavoro. Non solo: mancano curiosità, ambizione, desiderio.

I social network, così freddi e privi di vita, succhiano ai giovani la voglia di pensare.

Senza curiosità le generazioni vanno verso la rovina. Una curiosità che, seguendo i ragionamenti di Crepet, è legata a filo doppio con l’umiltà: solo chi è umile e sa di non sapere ha il dono della curiosità, del voler conoscere, scoprire, capire.

E solo chi ha curiosità e creatività è capace di andare avanti.
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Oltre alla creatività e all’ingegno, ha spiegato Crepet, i giovani hanno bisogno di chi sappia riconoscere il loro talento.

Il giovane Biro non avrebbe potuto coltivare le sue geniali idee senza l’aiuto del magnate Bic.

Per questo è giusto che le generazioni presenti aiutino le giovani generazioni ad andare oltre al pessimismo, oltre a quel che sarà, a pensare a ciò che ci sarà di meglio invece che pensare a chiudersi nel proprio angolo familiare per non fare entrare le brutture della vita. “Aprirsi al mondo perché il mondo entri in noi”.

Il messaggio di Crepet ai giovani è stato una grande ventata di forza, incoraggiamento e ottimismo. Perché togliendo ai giovani l’ottimismo e riempiendoli di paure li si porta alla rovina dell’anima.

Chiara Berardo

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FOOTBALL A 9, AQUILE E RED JACKETS FINALISTE

Sarà Aquile Ferrara-Red Jackets Lunigiana la finale del campionato di Football a 9 che si terrà sabato prossimo a Spoleto.

Eliminati quindi Bills Cavallermaggiore e Gladiatori Roma, che escono comunque tra gli applausi. Titolo della North Conference alle Aquile, protagonisti di una partita molto dura e fisica contro i Bills in cui hanno messo in mostra un attacco spumeggiante e una difesa solida nonostante qualche assenza.
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La partita si decide nella prima metà di gara, con le Aquile che vanno a segno in ogni drive. Due corse di Romagnoli e Carolo (14-0), Petrone sblocca gli ospiti ma Mingozzi ritorna in end zone il kick-off successivo e il primo quarto si chiude sul 21-7.

Ancora Mingozzi fa salire il vantaggio, a 2 minuti dall’intervallo Saglia accorcia nuovamente, ma c’è ancora tempo per il touchdown di Ursu.

Si va al riposo sul 33-14. La seconda parte di gara si gioca su ritmi più lenti, vanno a segno Saglia per i Bills, con la ri sposta di Mingozzi, MVP della giornata, con una corsa di 60 yard per il 41-20 finale.
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Il titolo della North Conference va invece ai Red Jackets Lunigiana, bravi a passare a Roma contro i Gladiatori.

Buona partenza per gli ospiti che, trascinati da Toracca e Milani (autore di due touchdown), si portano avanti 20-7 perché nei Gladiatori va a segno solo Yustman. Dopo l’intervallo, però, i Gladiatori rimettono in discussione il risultato. Subito un fumble e Mingoli diventa protagonista varcando la linea di meta per due volte fino a raggiungere la parità a quota 20.

Lì, nel momento più difficile, i Red Jackets vincono la partita con le corse di Milani e le ricezioni di Boschi, mentre va a segno anche Buchi.

I Gladiatori non si arrendono mai e tengono in discussione il punteggio fino alla fine mandando a segno Pompili e Aliberti per il 42-33 finale che premia la squadra che si è dimostrata più solida, commettendo meno errori in una gara molto condizionata dal grande caldo e con tante flag in campo.

Risultati

Aquile Ferrara-Bills Cavallermaggiore 41-20

Gladiatori Roma-Red Jackets Lunigiana 33-42

Nine Bowl (sabato 22 a Spoleto)

Red Jackets Lunigiana-Aquile Ferrara

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I nuovi timorati di Dio

In un’epoca segnata da profonde crisi e da calamità naturali, sembra opportuno rifarci ai timorati di Dio che, alle origini del cristianesimo, hanno “avuto una parte di rilievo nell’esito favorevole della prima missione cristiana. Essi divennero, insieme agli ellenisti, (Greci), un gruppo di capitale importanza, perchè rimasero fedeli al vangelo”, nonostante il loro rifiuto a sottomettersi alla pratica giudaica della circoncisione.

Vediamo appunto in questo contributo di rilevare i tratti peculiari della loro vita religiosa, affinchè il laicato possa essere, anche oggi sul loro esempio, appannaggio del timore di Dio in Cristo.
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I timorati di Dio

I timorati di Dio per Cristo e in Cristo

Luca menziona Simeone, uomo giusto e “timorato di Dio” (Lc 2,25).

Il timorato di Dio viene equiparato al servo del Signore che il Signore ha eletto, perchè ha posto il suo Spirito su di lui: “Lo Spirito Santo che era sopra di lui” (Lc 2,26).

Simeone era un uomo devoto a Dio, il cui spirito era docile a compiere quello che Dio gli diceva.

Su di lui lo Spirito del Signore aveva posto la sua dimora, perchè il suo cuore era predisposto a fare ciò che Dio gli diceva.

Infatti grande era il suo attaccamento a Dio, che lo Spirito del Signore gli predisse la venuta del messia; venuta che sarebbe stata “segno di contraddizione” per il popolo di Israele: “gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il messia del Signore” (Lc 2,26).

Per il timore di Dio, cioè per il suo profondo amore verso il Padre celeste, egli fu spinto dallo Spirito Santo e, recandosi al tempio in occasione della consacrazione di ogni primogenito maschio al Signore, come era prescritto dalla Legge, prese il bambino Gesù.

Dopo aver benedetto Gesù e i suoi genitori predisse – in veste di portavoce dello spirito del Signore – che Gesù era venuto nel mondo per “la rovina e la risurrezione di molti in Israele” (Lc 2,34).
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Simeone aveva predetto tutto questo (l’arrivo del messia), perchè aveva una profonda riverenza verso Dio, essendo irreprensibile il suo timore verso Dio, cioè la sua fiducia e la sua amicizia in Dio. Per questa sua volontaria disposizione a compiere ciò che Dio voleva, egli fu un uomo giusto e timorato di Dio.

Parallelamente in Gv 9,31 timorato di Dio viene designato colui che predispone il suo spirito a fare la volontà di Dio: “Noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta” (Gv 9,31).

Nel caso del cieco nato il timorato di Dio viene identificato con Gesù perchè lui solo, provenendo dal Padre, è interamente dedito al Padre con lo spirito e il corpo:

Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato.

Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla (Gv 9,32-33). Sempre Giovanni in 12,20 fa riferimento ai timorati di Dio, cioè a “quelli che erano saliti per il culto (τινες ἐκ τῶν ἀναβαινόντων ἵνα προσκυνήσωσιν) durante la festa” (Gv 12,20), precisando che tra coloro “c’erano alcuni greci” (Gv 12,20).

Ciò attesta che i timorati di Dio non sono coloro che offrivano sacrifici a Dio, ma sono coloro che volgono il loro spirito a Dio, sottomettendosi a lui e amandolo al di sopra di ogni cosa.

Ne fa fede il verbo προσκυνεῖν in Gv 12,20 che in greco significa “adorare, rendere omaggio” .

In Giovanni il verbo indica il prosternarsi di coloro che salivano al tempio di Gerusalemme per rendere culto a Dio Tale verbo proviene da πρός (vicino) e κυνέω (dare un bacio) .

Dalla unione di queste due parole si evince che il timorato di Dio è colui che, in segno di riverenza e di rispetto, esprime il proprio fervente attaccamento a Dio.
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Giovanni precisa che, tra coloro che si recano al tempio, c’erano anche alcuni greci.

I greci si recano al tempio, sulla base della loro predisposizione a essere riverenti e rispettosi di Dio, perchè profondamente attaccati a Dio e, per questo motivo, sono annoverati da Gv come timorati di Dio.

Veniva designato come timorato di Dio un determinato gruppo di persone pagane per nascita, che si sentivano parte della comunità giudaica, senza essersi però sottomesse alla pratica della circoncisione ed essere divenute proseliti giudei.

Alla stessa stregua di Simeone, anche Cornelio era chiamato pio e timorato di Dio perchè egli era dedito a Dio, rivolgendogli le preghiere e facendo le elemosine: Era religioso e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio (At 10,2).

Il principale elemento che contraddistingue la figura di Cornelio rispetto alle altre è il fatto che egli era religioso e, al contempo, timorato di Dio.

La sua religiosità è interconnessa con il timore per cui, oltre a fare le elemosine, pregava Dio.

Secondo quanto ci testimonia Luca, la religiosità di Cornelio si estrinseca nel fare le elemosine, mentre il timore nel pregare Dio.

La religiosità è appannaggio dell’uomo che si volge a cercare il divino.

L’uomo religiosus, fin dall’antichità, era colui che aveva una spiccata tendenza a contemplare ciò che stava oltre, o meglio dietro il suo orizzonte fisico.

L’al di là lo affascinava a tal punto che tutto il suo essere era orientato ad immergersi in questa sfera che oltrepassava la sua pura materialità, per andare oltre se stesso.
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Nella stessa ottica si consuma la religiosità di Cornelio; religiosità che precede e che fonda la stessa virtù del timore di Dio. Senza questo anelito a Dio non era possibile per Cornelio, come per un uomo saggio, concretizzare nelle opere di carità questa sua sete di infinito.

A partire dalla religiosità, cioè a partire dall’apertura di se stesso a Dio, ne consegue per Cornelio, alla stessa stregua dei sapienti, la virtù pratica della religione che si estrinseca nelle sue diverse forme, compresa quella dell’elemosina, come nel caso di Cornelio.

Grazie a questa sua forte inclinazione a Dio, Cornelio si aggiudica il beneplacito di Dio con la preghiera, perchè essa detiene per l’anima lo stesso ruolo che il carburante ha nella macchina.

L’anima dell’uomo, senza la sua elevazione a Dio, perde se stessa, in quanto essa è orientata a vivere in pace con Dio per dedicarsi a lui, per cui l’uomo è chiamato a nutrire la vita dell’anima con la preghiera. La preghiera non è solo una semplice ripetizione di parole vuote di senso, ma se ne deve riporre la forza piuttosto nelle scelte dell’anima, e nella pratica delle virtù estesa a tutta la vita.

Sia che mangiate, dice l’Apostolo, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi cosa, fate tutto a gloria di Dio! (1Cor 10,31).

Sedendo a tavola, prega; prendendo il pane ringrazia chi te lo dona; rinfrancando col vino il corpo estenuato, ricorda chi ti porge questo dono per rallegrare il tuo cuore e rinfrancare la tua debolezza. E’ finito il pranzo?

Non cessi il ricordo del tuo benefattore. Se indossi l’abito, ringrazia chi te lo ha dato; se ti getti sulle spalle il mantello, cresci nell’amore di Dio il quale ci provvede d’estate e d’inverno degli abiti adatti per proteggere la nostra vita e nascondere le nostre vergogne (…).

In questo modo «pregherai senza interruzione», se non limiterai la tua prece alle sole parole, ma ti unirai a Dio in tutta la condotta della tua vita, sicchè il tuo stesso vivere sia una preghiera continua ed incessante.
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Origene spiega che innanzitutto, tramite la preghiera, l’orante ha il compito di lodare Dio; alla lode ne conseguono i ringraziamenti e la confessione dei propri peccati, seguita dalla supplica del perdono di questi e da una petizione dei doni sublimi.

Nella preghiera l’orante mostra la sua continua lode a Dio, per mezzo di Cristo nello Spirito Santo.

All’inizio, cominciando la preghiera, si devono elevare con tutte le proprie forze lodi a Dio, per mezzo di Cristo, glorificato nello Spirito Santo, che è con lui.

Dopo di ciò, ognuno farà seguire ringraziamenti generali, pensando ai benefici elargiti a tanti uomini e quelli personali ricevuti da Dio.

Dopo il ringraziamento, mi sembra che si debbano accusare con severità, davanti a Dio, i propri peccati, supplicando lui di salvarci e liberarci dallo stato in cui quelli ci hanno condotto, e anche di perdonarci le colpe commesse.

Dopo la confessione dei peccati, si chiederanno i doni sublimi, celesti, particolari e collettivi, per i parenti e gli amici. E in tutto ciò la preghiera deve risuonare come lode continua a Dio per mezzo di Cristo nello Spirito Santo.

Origene puntualizza che, tramite la preghiera, l’uomo rende l’anima sacra a Dio, nel senso che l’anima “si dispone soavemente per piacere a lui che è presente, che giunge al fondo di ogni pensiero e che esamina i cuori e scruta le reni (Sal 7,10)”.

Colui che prega, sempre per Origene, deve avere l’intenzione di piacere a Dio più che all’uomo e, per piacere a Dio, è chiamato ad allontanare da se stesso ogni proposito malvagio che fomenti l’ira e la perversione e che dia adito a turbamenti di ogni genere,cancellando dall’anima ogni sentimento d’ira e non serbando turbamento contro nessuno.

Inoltre, affinchè la sua anima non sia offuscata da pensieri estranei, deve dimenticare, nel tempo dedicato alla preghiera, tutto ciò che ad essa non si riferisce.
timorati di Dio, religione, cinzia randazzo, coeconews

Da tutto quanto, abbiamo notato che la preghiera è il cibo dell’anima, perchè essa consente all’anima una maggiore vicinanza con Dio, rendendo così Cornelio timorato di Dio. La sua vigilanza e la sua costanza, nel pregare e nel fare le elemosine, trovano grazia agli occhi di Dio perchè queste hanno fatto di Cornelio un vero timorato di Dio.

Un giorno verso le tre del pomeriggio vide chiaramente in visione un angelo di Dio venirgli incontro e chiamarlo: “Cornelio!” Egli lo guardò e preso da timore disse: «Che c’è, Signore?». Gli rispose: «Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite, in tua memoria, innanzi a Dio (At 10,3-4).

Cipriano di Cartagine, ricorrendo alla citazione di At 10,4, afferma che Dio ha esaudito Cornelio, perchè egli era uno che si prodigava nelle elemosine alla gente, e sempre stava a pregare Dio.

Appunto a lui, mentre pregava, verso l’ora nona un angelo venne a rendergli testimonianza del suo operato, dicendo: «Cornelio, le tue preghiere ed elemosine sono salite fino a Dio che se ne ricorda» (At 10,4).

Salgono immediatamente a Dio quelle preghiere che si presentano a lui coi meriti delle nostre opere.

Luca in At 10,2 designa Cornelio “uomo pio (εὐσεβὴς) e timorato (φοβούμενος) di Dio”, mentre in 10,22 “uomo giusto (δίκαιος) e timorato (φοβούμενος) di Dio”. La connotazione di timorato di Dio è preceduta, nel primo caso, dall’aggettivo pio e, nel secondo caso, dall’aggettivo giusto. Nel primo caso Luca puntualizza che Cornelio, prima di essere timorato, era pio, cioè “rispettoso (delle disposizioni)” .

Viene designato pio colui che ha un “timore reverenziale, profondo rispetto, pietà, religione” verso Dio.
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Nell’A.T. Il pio è colui che ha stabilito con Dio un patto di alleanza, al quale corrisponde di essergli fedele. Sulla base di questa sua fedeltà a Dio, Dio compie prodigi per lui.

Il termine pio, che raramente si trova nei libri biblici, designa colui che ha una fede e una condotta di vita esemplari al cospetto di Dio: “«Timorato di Dio» equivale a «pio» e, per i libri sapienziali, il «timore di Dio», la «religione» è il principio e il culmine della sapienza”. A lui Dio offre la propria gratitudine in quanto è leale, fermo, fedele, buono e santo. Il termine è “frequente nell’ambiente del NT per indicare rispetto per gli dei greci e romani e per le gerarchie sociali.”.

Riferito a Cornelio il termine pio viene a indicare che egli ebbe una fede e una condotta di vita gradita a Dio, essendo profondamente rispettoso dei suoi comandamenti, per cui questo stato di vita è alla base della sua profonda riverenza verso Dio. Proprio perchè Cornelio ha un profondo rispetto per Dio, egli diviene timorato di Dio, cioè riverente verso lui.

Per Cornelio il rispetto (εὐσέβεια) e la giustizia (δικαιοσύνη) sono elementi fondanti il timore di Dio. L’uomo giusto è anche colui che osserva i comandamenti (Dt 6,24) e che si rifugia in Dio (Pv 18,10).

A tal proposito Lattanzio spiega che l’uomo giusto è colui che glorifica Dio, onorandolo per tutto quanto gli ha donato.

Dio dunque volle che l’uomo fosse tutto dedicato alla sua glorificazione; (…): è sommamente giusto infatti che l’uomo ami colui che tanto gli ha donato (…). Dio dunque ha voluto che tutti gli uomini sian giusti, che cioè amino ed onorino Dio.
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La giustizia, ci spiega sempre Lattanzio, è un’erma bifronte. Essa è composta da due facce: dall’amore e dal timore.

Lattanzio ci invita non solo ad amare Dio come un padre perchè egli ci ha creati, ci nutre e ci salva, ma anche a temerlo perchè, in qualità di signore dell’universo, ha sull’uomo il potere di vita e di morte.

Primo compito della giustizia è riconoscere Dio come genitore: temerlo come signore e amarlo come padre.

Egli infatti ci ha generati, ci ha animati con lo spirito di vita, ci nutre, ci salva.

Perciò, non solo come padre, ma anche come dominatore, può ben castigarci: ha su noi potere di vita e morte; duplice è dunque l’onore che l’uomo gli deve prestare, cioè amarlo e temerlo.

L’uomo giusto e l’uomo pio in Cornelio si identificano, perchè da entrambi scaturisce, a mo’ di chiasmo, il senso positivo del timore di Dio.

In At 10,35 nel discorso di Pietro a Cornelio si evince che è gradito a Dio chi lo teme, ossia colui che offre sacrifici spirituali nella fede in Cristo: “ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (Atti 10,35).

Si ricalca la teologia del culto spirituale gradito a Dio, descritto in 1Pt 2,5, dove ciò che conta è la consacrazione del cuore a Dio credendo nel Figlio che egli ha inviato nel mondo, il quale ci rende figli di Dio.

anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo (1Pt 2,5).

Anche Paolo in Rm 15,16 aveva annoverato nella fede alla Parola predicata dal Figlio il culto spirituale gradito a Dio “perchè i pagani divengano una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo” (Rm 15,16).

Sulla base di ciò i timorati di Dio sono coloro che accolgono con fede la buona novella predicata da Gesù, al quale sottomettono il loro spirito perchè fiduciosi del suo aiuto e, in questo loro culto spirituale, sono graditi al Padre.
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I timorati di Dio nell’A.T.

Nella storia del popolo di Israele i timorati di Dio avevano la caratteristica di non essere circoncisi, perchè non si convertivano al giudaismo, ma in loro era sviluppato il sentimento della riverenza e dell’attaccamento incondizionato a Dio. Essendo in loro vivo più il senso religioso che sacrificale, “frequentavano la liturgia della sinagoga, leggevano la Torà e osservavano i comandamenti”.

I timorati erano greci e non giudei che partecipano al sevizio sinagogale e osservano la legge senza però passare al giudaismo tramite la circoncisione. Essi sono obbligati all’osservanza del sabato e delle leggi relative ai cibi, hanno determinate prescrizioni morali e professano la fede in un solo Dio.

I timorati di Dio nella tradizione deuteronomistica

Si connotavano come coloro in cui era alto il senso della fiducia e dell’abbandono in Dio, spinti dalla certezza che Dio amava il suo popolo perchè egli ha instaurato con lui un rapporto di amicizia, sigillato dalla primitiva alleanza (Dt 10,12; 11,1; 30,16).

Al senso primitivo del timore di Dio, per cui la divinità incute tremore e terrore, si passa a una sorta di timore di Dio in senso positivo, nel senso cioè che l’uomo si abbandona amorevolmente nelle mani di Dio, teso a salvarlo grazie alla sua predisposizione del cuore volto a volere nessun altra cosa all’infuori di Dio.

Il primitivo concetto di timore si va così accostando all’«amore» (āhab), (…) esprimendo con una parola astratta l’idea di «religione»: «Che cosa chiede a te Yahweh, il tuo Dio, se non che tu tema Yahweh, il tuo Dio, che tu cammini in tutte le sue vie, che tu l’ami e serva a Yahweh, tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta l’anima tua (…)? (Dt 10,12).

In Dt 11,1 il timore di Dio esprime la propensione del fedele ad amare Dio, ad osservare le sue leggi, a riconoscerne la sua grandezza, concretizzatasi nelle sue gesta salvifiche verso il popolo d’Israele, liberandolo dalla schiavitù dell’Egitto:

Ama dunque il Signore, tuo Dio, e osserva ogni giorno le sue prescrizioni: le sue leggi, le sue norme e i suoi comandi. 2. Oggi voi – non parlo ai vostri figli che non hanno conosciuto né hanno visto le lezioni del Signore, vostro Dio – riconoscete la sua grandezza, la sua mano potente, il suo braccio teso, 3. i suoi portenti, le opere che ha fatto in mezzo all’Egitto, contro il faraone, re dell’Egitto e contro la sua terra; 4. ciò che ha fatto all’esercito d’Egitto, ai suoi cavalli e ai suoi carri, come ha fatto rifluire su di loro le acque del mar Rosso, quando essi vi inseguivano, e come il Signore li ha distrutti per sempre (Dt 11,1-4).
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Secondo la versione deuteronomistica, il timore di Dio acquista il carattere di amore reverenziale verso Dio che salva il popolo di Israele; amore che si estrinseca nel camminare secondo le sue vie e nell’osservare i suoi precetti (Dt 30,16).

Il timore di Dio “soprattutto per la scuola deuteronomistica equivale a rispettare l’alleanza, ad obbedire ai comandamenti di Yahweh, a seguire le sue vie”.

I timorati di Dio nella tradizione sapienziale

Rispetto alla tradizione deuteronomistica quella sapienziale sottolinea che il timore di Dio, equiparato all’idea di religione, “è il principio e il culmine della sapienza”.

Infatti in Pv 1,7 viene puntualizzato che la sapienza umana ha origine dal timore di Dio: “Il timore del Signore è principio della scienza; gli stolti disprezzano la sapienza e l’istruzione” (Pv 1,7). Il timore di Dio connota l’atteggiamento del sapiente, cioè di colui che cerca di corrispondere all’amore del Padre.

Il timorato di Dio è intento a piacere più a Dio che agli uomini, per cui si preoccupa di affinare le sue capacità virtuali, al fine di rendersi sempre bene accetto al Signore (Pv 9,10).

Colui che coltiva le facoltà intellettive e volitive, nell’accingersi ad osservare i precetti del Signore, fa di tutto per rendersi il più possibile gradito a Dio, divenendo in tal modo timorato di Dio.

Chi si avvicina a Dio, osservandone i suoi precetti, è un uomo sapiente, dalla cui pienezza fiorisce il timore di Dio:

Il timore di Dio può essere usato in questo senso come sinonimo di essere “retto”, “onesto”, “giusto”, “odiare ciò che è malvagio”, “stare lontani dal maligno.

Cinzia Randazzo

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Le future sinagoghe cristiane all’insegna del timore di Dio

Il presente lavoro nasce dalla constatazione che, in diverse chiese cristiane, i fedeli hanno affievolito la pratica cultuale del timore di Dio, perchè non lo vivono in piena consonanza a quella che è la volontà del Padre celeste.

Molto spesso i fedeli ricorrono a Dio per paura che Dio li castighi, nel senso che, se essi non compiono ciò che Dio vuole, egli li castiga.

Il timore di Dio è avvertito in tal modo come un comando e non come una disposizione del loro cuore ad aprirsi a Dio nella fiducia di averlo come un amico, certi che Dio li aiuta e che è dalla loro parte in qualunque circostanza si trovino.

Il secondo senso corrisponde a quello positivo del timore di Dio, il quale purtroppo scarseggia nelle nostre chiese cristiane, perchè Dio non viene considerato come un amico che aiuta l’uomo, ma come colui che ha bisogno sempre di preghiere per suscitare la simpatia e la fiducia nei suoi confronti, con lo scompenso di “manipolare” la volontà di Dio a nostro piacimento, al fine di soddisfare i nostri desideri.

A partire da tale quadro, in questo contributo cercheremo di dare delle piste di soluzione a tale problematica, ricollegandoci ad alcuni passi del vangelo che sono al fondamento di una vera e propria rinascita del vero senso da dare al timore di Dio nei nostri luoghi di culto.
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La sinagoga luogo di insegnamento e di guarigione

La sinagoga luogo di “insegnamento” del timore di Dio

Durante il suo ministero pubblico in Galilea Gesù, dopo aver attraversato il “mare di Galilea”, giunse, insieme ai suoi quattro primi discepoli, a Cafarnao ed entrò proprio di sabato nella sinagoga: “Andarono a Cafarnao e, entrato proprio di sabato nella sinagoga, Gesù si mise ad insegnare” (Mc 1,21).

Gesù entrò proprio di sabato nella sinagoga, perchè il giorno di sabato, all’inizio della creazione, fu consacrato da Dio per essere giorno di riposo (Gen 1,1-2,3), mentre nella tradizione ebraica viene ad essere il giorno in cui si commemora la liberazione degli ebrei dalla schiavitù degli egiziani:

L’osservanza del sabato nella narrazione biblica comincia durante il cammino nel deserto e si collega al dono della manna (Es 16), che non dev’essere raccolta nel settimo giorno: infatti il sesto Dio garantisce una doppia razione. Per questo la celebrazione del sabato porta con sé la memoria della liberazione dall’Egitto e della prova del deserto.
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Il giorno di sabato viene ricordato non solo perchè è il giorno di riposo da tutte le cose, ma anche perchè Dio ha dato il comandamento di santificare il giorno di sabato: La maggiore differenza tra Esodo e Deuteronomio si trova nel motivo del comandamento: da una parte la creazione, dall’altra la liberazione dall’Egitto”.

Sia nel primo caso come nel secondo “si tratta ancora di una imitazione di Dio: come Dio ha santificato il settimo giorno, così chi osserva il comandamento.

Sotto questo profilo il sabato “è memoria e imitazione dell’opera di Dio per la salvezza”, perchè da una parte il fedele riposa da tutte le opere mondane rinfrancando lo Spirito e liberando le energie spirituali per onorare il creatore e, dall’altra, per ricordarsi che Dio è amico del suo popolo, in quanto lo ha liberato dagli egiziani.

Il sabato quindi per gli ebrei è il giorno in cui si commemorano le gesta salvifiche di Dio; da una parte Dio ha dato la vita alla creazione preservandola dalle tenebre e, dall’altra, Dio ha dato all’ebreo la possibilità di liberarlo dal male, dai nemici.

A partire da tale quadro l’ebreo imita il riposo di Dio, rivivendo il comandamento dell’amore verso Dio. Egli identifica la Torah col comandamento dell’amore.

Insieme, le due tavole ci insegnano cosa vuol dire il duplice comandamento dell’amore: ama Dio con tutte le tue forze e ama il prossimo tuo come te stesso.
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L’ebreo ama Dio con tutte le forze per tutto ciò che egli ha creato e per quanto ha fatto per salvarci dalle potenze nemiche.

Amando Dio al di sopra di ogni cosa l’ebreo vive la pratica cultuale del timore di Dio, perchè ripone la sua fiducia in lui per tutto quello che ha fatto per la sua salvezza.

Pertanto Gesù entra proprio di sabato nella sinagoga per onorare il Padre celeste in questo giorno, insegnando le cose che il Padre gli ha comandato di dire.

Gesù, secondo la testimonianza di Marco in 1,22, insegnava come colui che possiede autorità perchè in lui risplende la sapienza del Padre, in quanto compie e dice tutto quello che il Padre gli comanda di dire e di fare, diversamente dagli scribi, la cui sapienza proviene loro non da Dio ma dalle accademie rabbiniche: “Ed erano stupiti del suo insegnamento, perchè insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi” (Mc 1,22).

Di nuovo Gesù venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: «Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?». E si scandalizzavano di lui.

Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua (Mc 6,1-4).
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La sinagoga è il luogo che accoglie la sapienza del Padre che si manifesta nel Figlio, perchè solo al Figlio il Padre ha dato questo privilegio, essendo fin dall’eternità unito al Padre.

Egli palesa questa sua filiale forma di attaccamento al Padre nel timore di Dio, dal momento che soltanto lui possedeva la sapienza del Padre ancora prima della creazione nel sabato primordiale.

Sotto questo profilo il sabato temporale, cioè il settimo giorno, che corrisponde al periodo in cui Gesù entra nella sinagoga, è tempo in cui diviene tangibile nella storia il vero timore di Dio che si estrinseca nell’insegnamento del Figlio.

Il sabato storico è tempo storico del primordiale timore di Dio che il Figlio viveva nei confronti del Padre nel sabato protologico e viceversa.

Come la sapienza del Padre si è manifestata nel settimo giorno alle origini della creazione, quando il Padre creò e ordinò tutte le cose che sono nel mondo secondo un suo sapiente disegno, – disegno che era stato progettato dal Padre insieme al Figlio che era sapienza del Padre ab aeterno- così nel sabato soteriologico , che è il nuovo tempo storico della salvezza originatosi con la venuta di Cristo, la sapienza del Padre si ri-manifesta nel Figlio nella sinagoga, luogo in cui si estrinseca il pieno attaccamento al Padre del Figlio (timore di Dio) attraverso il suo sapiente insegnamento.

Sotto questo profilo la sinagoga diviene luogo concreto della realizzazione storica del sabato protologico nel sabato soteriologico, dove la sapienza ab aeterna del Figlio, in unione stretta con quella del Padre, si rende presente storicamente nella sua attività didattica proprio all’interno della sinagoga.
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La sinagoga luogo di guarigione: segno tangibile della realizzazione del timore di Dio in Cristo Gesù viveva la pratica cultuale del timore di Dio perchè sapienza incarnata del Padre.

Gesù mostrava la sua divina autorità anche allo spirito immondo che aveva preso dimora in un uomo:

Allora un uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito immondo, si mise a gridare: «Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio». E Gesù lo sgridò: «Taci! Esci da quell’uomo». (Mc 1,23-25).

Egli comandava con autorità su questo spirito immondo e gli ubbidiva perchè Gesù era la personificazione vivente del timore di Dio, in quanto in lui era vivo e permanente il suo amore filiale verso il Padre.

Infatti lo spirito immondo che era in quell’uomo, all’udire il comando di Gesù di uscire da quell’uomo, uscì: “E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui” (Mc 1,26).

Il miracolo della guarigione dell’indemoniato avviene all’interno della sinagoga, luogo in cui si manifesta l’intimo attaccamento del Figlio verso il Padre e viceversa (timore di Dio), in quanto la sinagoga e, insieme a lei anche coloro che erano presenti, sono i diretti testimoni oculari del timore di Dio vissuto intimamente dal Figlio verso il Padre e realizzatosi nella guarigione dell’indemoniato.

Grazie al timore di Dio, che il Figlio viveva in unione stretta con il Padre, divenne possibile a Cristo di scacciare lo spirito immondo dall’indemoniato, suscitando così negli astanti timore e meraviglia:

Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono!» (Mc 1,27).
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Quando Gesù entrò prossimamente in giorno di sabato nella sinagoga manifestò di nuovo il suo fervente attaccamento al Padre, nel compiere la guarigione ad un uomo dalla mano inaridita: “Entrò di nuovo nella sinagoga. C’era un uomo che aveva una mano inaridita, e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato per poi accusarlo” (Mc 3,1-2).

Per l’amore e per la salvezza di quell’uomo egli guarisce la sua mano inaridita proprio in giorno di sabato, anteponendo il precetto dell’amore al di sopra della casistica sabbatica, che proibiva di fare alcunchè nel giorno di sabato.

Anteponendo l’amore per la vita al di sopra dello stesso precetto sabbatico, Gesù mostra ai presenti, compresi i farisei induriti nel loro cuore, di essere il vero timorato di Dio.

In lui si rispecchia l’amore di Dio verso l’uomo bisognoso di aiuto e di salvezza, non solo coniugando al precetto sabbatico l’amore per la vita, ma anche esplicando tale amore proprio nel giorno di riposo da tutte le occupazioni mondane, perchè egli ha realizzato la volontà di Dio che vuole il bene di tutti.

Egli disse all’uomo che aveva la mano inaridita: «Mettiti nel mezzo!». Poi domandò loro: «È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?».

Ma essi tacevano. E guardandoli tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell’uomo: «Stendi la mano!». La stese e la sua mano fu risanata. (Mc 3,3-5).
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Di nuovo Gesù sempre di sabato insegnava nella sinagoga, sbalordendo tutti quelli che l’ascoltavano in quanto la sua sapienza non gli proveniva dalla perizia dei suoi ragionamenti, ma da Dio.

Alla parola insegnata e predicata nella sinagoga conseguivano i fatti miracolosi, nei quali la Parola si incarnava.

Gesù manifestava così nel connubio della parola predicata con i fatti miracolosi il suo profondo timore verso Dio (Mc 6,1-6).

All’azione faceva precedere la parola, per cui la professione della Parola di Dio si compiva nella prassi di vita del Figlio, segno concreto ed evidente del suo filiale timore verso Dio, esternato dapprima nella predicazione e poi nell’azione guaritrice del Figlio.

Secondo la testimonianza di Luca in 4,16-20 Gesù, entrando di sabato nella sinagoga a Nazareth di Galilea, manifesta a tutti che egli è l’inviato di Dio perchè il Padre ha posto il suo spirito su di lui per portare a compimento il suo disegno di salvezza verso l’uomo; egli è venuto nel mondo per annunziare il lieto messaggio di salvezza e per compiere la salvezza con le opere, facendo capire ai presenti che egli è chiamato dal Padre a personificare la pratica del timore di Dio, in quanto tutta la sua vita è orientata a rendere onore al Padre con le parole e con i fatti quotidianamente.

Venne a Nazaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annunzio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore (Lc 4,16-19).
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Tornando a Cafarnao Gesù guarisce nella sinagoga un uomo posseduto da uno spirito immondo, per cui la sinagoga diviene luogo del compimento del timore di Dio in Cristo, perchè in lui la parola di Dio diviene gesto concreto di salvezza (Lc 4,33-36).

Ancora una volta Gesù nella sinagoga esprime il suo vitale attaccamento al Padre e quindi il suo perfetto timore di Dio, guarendo una donna curva in giorno di sabato; in tal modo egli adempie il precetto dell’amore per Dio con la guarigione fisica di questa donna.

Stava insegnando in una sinagoga in giorno di sabato. C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni; era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta. Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei liberata dalla tua malattia». Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio (Lc 13,10-17).

Attraverso l’insegnamento e le guarigioni di Gesù si espleta nella sinagoga il sabato soteriologico; copia vivente e tangibile del sabato protologico, dove il Figlio, essendo tutto dedito al Padre e viceversa, consumava ab aeterno il suo vero timore verso il Padre.

Cinzia Randazzo

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Qualcosa è cambiato As Good As It Gets

Una graffiante commedia di James Brooks, che vanta un cast d’eccezione tra cui spiccano Helen Hunt e lo straordinario Jack Nickolson, che si sono aggiudicati due Oscar come Miglior Attrice/ Attore Protagonista.

qualcosa è cambiato helen hunt jack nickolson martina vecchi coeconews

Melvin Udall è un affermato autore di romanzi rosa che vive nella New York elegante. Di certo le sue lettrici non sospettano che lo scrittore abbia un pessimo carattere, sia misantropo, razzista, paranoico, ossessionato da complessi e tic, costantemente intento a fare dispetti e sgarberie al prossimo, soprattutto a Simon, suo vicino di casa, pittore omosessuale sull’orlo del fallimento. Carol Connelly è single e madre di un bambino con gravi problemi di salute, e lavora come cameriera al locale presso cui Melville pranza ogni singolo giorno, sedendosi al solito posto, consumando il solito pasto, accettando solo ed esclusivamente il servizio al tavolo di Carol.

L’esistenza di Melville scorre nella sua monotona, perfetta perfezione fino a quando le vite di Simon e Carol incroceranno immancabilmente la sua.

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Melville si scoprirà inaspettatamente generoso, buono, a dispetto del suo comportamento selvatico e solitario. Merito della semplice dolcezza di Carol? O anche della (improbabile) amicizia con Simon? O degli ostacoli che la vita ci permette di superare insieme?

Una commedia ironica, brillante, dolceamara, che nella sua leggerezza ci fa riflettere su quanto i sentimenti e l’amore abbiano la forza di cambiare le nostre abitudini e le nostre paure.

 

Martina Vecchi

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IL “MONTE” NELLA DECAPOLI E IN SAMARIA

Il “monte” dei Geraseni
Nella regione dei Geraseni che, secondo la testimonianza di Luca, “sta di fronte alla Galilea” (Lc 8,26) e secondo la testimonianza di Marco all’altra sponda del mare di Galilea, cioè del lago di Tiberiade (Mc 5,1), sul monte si riversano nei buoi gli spiriti immondi:
C’era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo. E lo scongiurarono: Mandaci da quei porci, perchè entriamo in essi». Glielo permise. E gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affogarono nel mare (Mc 5,11-13).

Tale regione, comprendendo il territorio della Decapoli, si estende al di là del Giordano, confinando a nord con il lago di Genezareth e l’Auranitide, nella quale è collocata Betsaida dalla parte nord-ovest del lago di Tiberiade , mentre a sud con la Perea. Questa regione prende il nome da Gerasa, “città della Decapoli vicino allo Yabboq, ad alcuni km a sud-est del lago di Kinneret, identificata con l’attuale Jerach”. La città di Gerasa, dal quale la regione prende il nome, si colloca a “sud-est del Lago di Tiberiade, nelle montagne di Galaad”. Secondo la testimonianza di Marco l’indemoniato stava presso i monti e di lì saliva e scendeva: “Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre” (Mc 5,5).
Molto probabilmente il monte di cui parla sia Marco che Luca è collocato nella catena montuosa dei monti Galaad e i monti, verosimilmente, vengono riferiti a quelli della medesima cordigliera montuosa. Si può supporre che il luogo dove Gesù abbia espulso la legione dei demoni dall’indemoniato fu El Kursi, l’antica Gadara, che “si trova circa 10 km a sud-est del Lago di Tiberiade”.
Tale monte è non solo il luogo del pascolo – dal momento che sul monte pascolava un copioso branco di porci -, ma anche il luogo in cui Gesù, su richiesta degli spiriti immondi che abitavano nell’indemoniato geraseno, permise con la sua potenza divina a tali spiriti di impossessarsi dell’anima dei porci:
Ora c’era là, sul monte, un numeroso branco di porci al pascolo. E gli spiriti lo scongiurarono: «Mandaci da quei porci, perchè entriamo in essi». Glielo permise. E gli spiriti immondi uscirono ed entrarono nei porci e il branco si precipitò dal burrone nel mare; erano circa duemila e affogarono uno dopo l’altro nel mare. I mandriani allora fuggirono, portarono la notizia in città e nella campagna e la gente si mosse a vedere che cosa fosse accaduto (Mc 5,12-13).

Il monte è il luogo in cui viene attestato il potere di Gesù di sottomettere alla sua volontà o meglio ai suoi ordini gli spiriti immondi, perchè a lui solo questi obbediscono: infatti quando questi, sul permesso di Gesù, entrarono nei porci, questi ultimi precipitarono nel lago e lì annegarono.
Sulla base di questi fatti il monte non solo diviene il luogo preferito per il pascolo degli animali, perchè i porci erano lì tranquilli a pascolare, in quanto per loro il monte rappresenta un oasi di pace e di vita, dal momento che lì trovano il cibo adatto alle loro esigenze, ma anche il luogo di turbamento, causato dall’entrata nei loro corpi degli spiriti maligni che, turbando l’anima dei porci, li fecero divenire frenetici, tanto che gli spiriti immondi pilotarono l’anima e il corpo dei porci verso il lago, cioè verso la morte.
Da luogo di tranquillità e di vita, il monte quindi cambia volto divenendo per i porci luogo di inquietudine e di furore, dal momento che i porci intrapresero la strada della discesa per annegare nel lago di Tiberiade: la discesa dal monte divenne causa della loro morte.
Quello che Marco ci vuole dire è che agli occhi di Dio e per volontà sua il monte è un oasi di felicità e di pace per i porci, ma quando questi vengono aizzati dagli spiriti maligni, i monti da luogo di refrigerio divengono l’anticamera della morte, perchè la loro anima e i loro corpi, pilotati dagli spiriti maligni, sono votati all’autodistruzione: infatti i porci da sé hanno compiuto un improvviso suicidio nelle acque del lago.

Il “monte” dei Samaritani
Nella regione di Samaria Giovanni menziona la città di Sicar, dove era ubicato il pozzo di Giacobbe, in prossimità del quale Gesù si fermò stanco del viaggio, perchè diretto verso la Galilea:
Si diresse di nuovo verso la Galilea. Doveva perciò attraversare la Samaria. Giunse così a una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua (Gv 4,3-7).
Gesù si fermò a Sicar perchè stanco del viaggio. Sicar, nota città della Samaria è posta nel frammezzo tra i monti Ebal e Garizim e ivi Gesù incontrò la samaritana (Gv 4,2-24).
Il monte Garizim è un massiccio monte (853 m s.l.m.) di fronte all’Ebal nelle alture centrali della Samaria (…) Per i samaritani il Garizim è la montagna più alta di tutte, il luogo del culto divino (Gv 4,20). Flavio Giuseppe, lo storico ebreo del I secolo e.v., narra che i samaritani vi costruirono un tempio nel IV secolo.

Durante il colloquio di Gesù con la samaritana, questa scopre che Gesù è il messia atteso, il quale la informa che né sul monte né in Gerusalemme è possibile adorare il Padre: “Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre” (Gv 4,21). Il monte a cui Gesù fa riferimento è molto probabilmente il monte Garizim, perché su tale monte i samaritani avevano adorato Dio, avendone costruito un tempio in suo onore:
Gli replicò la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare» (Gv 4,19-20).
Con ciò Gesù ha voluto dire alla samaritana che il vecchio culto è stato sostituito con questo nuovo, in quanto è solo possibile adorare il Padre in spirito e verità:
Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità (Gv 4,23-24).
Gesù dunque mostra alla samaritana che il monte Garizim non è più un luogo di culto, secondo la volontà del Padre, perché egli predilige che lo si adori nel profondo del cuore. Questo testo è al fondamento della nascita del nuovo culto spirituale, ovvero del nuovo culto “sabbatico” che ha il suo massimo compimento nel sabato pasquale, dove Gesù depone il suo spirito nelle mani del Padre.

Cinzia Randazzo

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Brueghel, meraviglie dell’arte fiamminga

Visto lo straordinario successo di pubblico e l’altissima domanda di visite e prenotazioni, a grande richiesta la mostra Brueghel.

Meraviglie dell’arte fiamminga sarà prorogata fino al 7 luglio 2013.
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La retrospettiva, prodotta e organizzata da Arthemisia Group in collaborazione con DART Chiostro del Bramante, ha suscitato l’interesse del grande pubblico.

Le opere che hanno entusiasmato oltre 200 mila visitatori si potranno ammirare per un altro mese nella suggestiva sede del Chiostro del Bramante di Roma.

Numeri importanti, ai quali si aggiunge il giudizio positivo per la qualità delle opere in mostra e i riscontri favorevoli della stampa sia nazionale che estera, che ha dedicato numerosi servizi all’interessante esposizione romana.
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Il Chiostro del Bramante ospita Brueghel. Meraviglie dell’arte fiamminga, la prima grande esposizione mai realizzata a Roma dedicata alla celeberrima stirpe di artisti.

Un’occasione unica per ammirare i capolavori di un’intera dinastia di eccezionale talento, attiva tra il XVI e il XVII secolo, e ripercorrerne la storia, lungo un orizzonte temporale, familiare e pittorico di oltre 150 anni.
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Curata da Sergio Gaddi e Doron J. Lurie, Conservatore dei Dipinti Antichi al Tel Aviv Museum of Art, la mostra fa parte di un grande progetto internazionale che approda per la prima volta nella Città Eterna in una versione inedita e rinnovata, dopo le tappe di Como e Tel Aviv.

Arricchita da quasi venti nuove opere, la retrospettiva romana è promossa e organizzata da Arthemisia Group in collaborazione con DART Chiostro del Bramante.
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Con oltre 100 opere, l’esposizione offre al pubblico la possibilità di vedere da vicino meravigliosi dipinti, presentati in modo organico e completo nella suggestiva cornice capitolina, provenienti da importanti musei nazionali e internazionali, e da un elevato numero di prestigiose collezioni private, nella cui estremamente frammentaria dislocazione nel mondo sta infatti l’eccezionalità di questa mostra che è riuscita a raccogliere e mettere insieme capolavori altrimenti difficilmente accessibili, alcuni dei quali finora mai esposti al pubblico.

Barbara Braghin

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La legge di Jennifer

La Legge di Jennifer di Alessandro Capitani, è il corto vincitore del Cinemaster Studio Universal 2013, il concorso per giovani registi organizzato dal Canale che mette in palio un Master presso gli Universal Studios di Hollywood in California e l’acquisizione dei diritti pay del cortometraggio del regista vincitore.
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Questa la motivazione della giuria per l’assegnazione del premio al cortometraggio di Alessandro Capitani.

“Per la capacità di portare alla luce, partendo da uno spunto narrativo originale, con grazia poetica e godibile leggerezza, in perfetto equilibrio tra commedia di costume e racconto d’infanzia, un tema importante e di stringente attualità come l’influenza della cultura dell’immagine sulle giovani generazioni.

Determinante per l’esito felice dell’opera, l’accurata scelta e direzione degli attori, a cominciare dalla piccola interprete protagonista, indizio sicuro di un talento registico da premiare”.
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La legge di Jennifer (2012) esplora una tematica quanto mai attuale, quella della chirurgia estetica, vista con gli occhi di una bambina di otto anni: Jennifer.

Il cortometraggio è interpretato da Asia Lupò (Jennifer), Patrizia Bruschi (la mamma), Maurizio Lombardi (il papà) e con la partecipazione di Cecilia Dazzi (l’insegnante).

Jennifer ha otto anni e non somiglia ai propri genitori.

Quando un giorno in classe la maestra spiega la teoria dei caratteri ereditari, il mondo le crolla addosso.

E se fosse stata adottata? Tornata a casa Jennifer inizia ad indagare e scopre che sono i genitori a non assomigliarle più perché entrambi si sono completamente trasformati con la chirurgia estetica.
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Alessandro Capitani, classe 1980, è partito il 6 aprile per gli Universal Studios di Los Angeles per un Master della durata di due settimane durante il quale ha incontrato i responsabili dei dipartimenti che, all’interno della Major cinematografica americana, curano il processo di realizzazione dei film: dall’arrivo delle sceneggiature alla scelta del cast, dalle riprese fino alla promozione delle pellicole nei singoli Paesi.

Laureatosi nel 2004 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna, ha esordito nel mondo del cinema come autore indipendente ricevendo riconoscimenti in Italia e all’estero.

Il cortometraggio La Legge di Jennifer, è stato presentato al Festival Internazionale del Film di Roma 2012 e prodotto da Mood Film.

Il “Cinemaster” è un progetto annuale per giovani registi italiani organizzato da Studio Universal.

Nato nel 1999 è collocato nell’ambito di “A noi piace corto”, un’ampia iniziativa mirata alla promozione e al sostegno del cortometraggio come forma d’arte cinematografica.

Barbara Braghin

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L’appartamento, film di Billy Wilder

Devo ancora decidere se preferire un ottimo libro o un ottimo film.

Non ho ancora deciso se scegliere la sensazione di pienezza e anche stringimento che provo a staccarmi dall’ultima riga di un libro che mi ha appagata, a risfogliarlo annusando il profumo fragrante (ebbene sì, per me le pagine dei libri hanno la fragranza del pane) o se optare invece per il mix di emozioni che mi lasciano i film, coinvolgendomi da attrice passiva (passività in grado però di travolgermi come un’onda).
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Bene, questo è uno di quei casi in cui mi trovo a scrivere a caldo, e ciò succede solo quando ho un’idea o quando sono entusiasta (le due cose possono coincidere, anzi, sono legate da un rapporto di causa- effetto).

Ho appena finito di vedere un film che mi ha conquistata, uno di quei film che piacciono a me, in cui delicatezza, ironia, profondità e leggerezza (qualunque descrizione non sarebbe all’altezza) si mescolano per lasciare lo spettatore con quella soddisfazione tipica da lieto fine, ma senza il retrogusto dolceamaro della prevedibilità.
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Sto parlando de L’appartamento, vincitore di cinque premi Oscar nel 1960, tra cui quello come Miglior Film. Un capolavoro del cinema americano, una chicca di Billy Wilder, da non perdersi assolutamente.

Tenero e pungente, profondo e intelligente pur seguendo una trama ricca di topoi (letterari, cinematografici, teatrali…), non scontato, non banale, nell’affrontare situazioni che si ripetono senza tempo né epoche, pulito, delicato e gradevole dalla prima all’ultima scena.

Uno straordinario (come sempre) Jack Lemmon interpreta C. C. “Bud” Baxter, contabile presso un colosso aziendale newyorkese, una grossa compagnia di assicurazioni.

Il giovane impiegato, molto ambizioso, cede puntualmente il proprio appartamento ai suoi superiori per ospitare le loro innumerevoli scappatelle, e ottenere così, con la sua disponibilità e flessibilità, continui avanzamenti di carriera.
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Quando anche il capo dei capi, Sheldrake (Fred MacMurray) approfitterà della disponibilità di Bud, questi scoprirà che la sua amante è la bellissima signorina Fran Kubelik (la splendida Shirley MacLaine), la ragazza dell’ascensore, di cui Bud è innamorato da sempre, e che corteggia con discrezione e gentilezza.

A questo punto la situazione si complica e le strade si intersecano; le vite dei personaggi si incontreranno e scontreranno per intricarsi sempre più, in un crescendo di equivoci e colpi di scena.
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Cosa farà Bud? Dovrà prendere un’importante decisione che cambierà la sua vita.

Accettare il posto prestigioso di assistente di Sheldrake o gettare alle ortiche una carriera basata sulla corruzione e la connivenza, e cercare di conquistare la bella Fran?

Un film incantevole, due ore di pieno coinvolgimento, da gustarsi incollati al divano.

Martina Vecchi

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Midnight Express

Film controverso e molto discusso, Fuga di mezzanotte è considerato un cult, entrato a far parte della storia della cinematografia mondiale.
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Il film di Alan Parker è tratto da una storia vera, e si ispira all’autobiografia di Billy Hayes, il protagonista dei fatti.

La pellicola fu oggetto di censure in molti paesi, per la violenza di alcune scene, e di critiche e polemiche per la rappresentazione delle guardie turche e del trattamento nella prigione, che si discostava dalla descrizione del libro.

Per via di una presunta pregiudiziale anti- turca, che mostrava al pubblico i Turchi come zotici, perversi, brutali e violenti (il regista venne addirittura accusato di essere razzista), la resa delle guardie turche fu animatamente criticata.
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Nel 1970 Billy Hayes (Brad Davis), studente americano, viene arrestato all’aeroporto di Istanbul per aver tentato di lasciare il paese con dell’hashish.

A tutta prima, grazie all’intercessione di un avvocato turco e alla clemenza del giudice, sembra che Billy debba cavarsela con poco, ma disposizioni del tribunale di Ankara, alle quali la giustizia di Istanbul si deve attenere, infliggono a Billy una condanna di oltre trent’anni.

Per Billy è l’inizio di un incubo che non sembra avere fine. Umiliato, brutalizzato e punito dalle guardie turche, durante il periodo di carcerazione il ragazzo riesce a farsi amici altri due detenuti, ormai veterani, con i quali progetta la fuga.

Il primo tentativo fallisce, e le strade dei tre amici si separano.
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Billy, disperando ormai di vedere una luce oltre il tunnel, vessato dalle torture dei carcerieri, ridotto alla pazzia poiché allo stremo delle forze fisiche e psicologiche, progetterà nuovamente la fuga, suo ultimo, disperato tentativo di sopravvivenza.

Vincitore di due premi Oscar (Miglior Sceneggiatura non Originale e Miglior Colonna Sonora Originale), Fuga di Mezzanotte è un film intenso, forte, drammatico, in cui la spietatezza e l’irremovibilità tolgono ogni immaginazione, ma mai la speranza.

Un film da non perdersi.

Martina Vecchi

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I monti dellaGalilea

In questo contributo, che sussegue al precedente, ci accingiamo a presentare le montagne della Galilea che, per il loro alto significato teologico, destano attenzione ai visitatori che sono intenzionati ad assaporare questi encomiastici luoghi biblici di impareggiabile memoria.
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I monti nei pressi del lago di Tiberiade

Il monte a cui fa riferimento Marco in 3,13 è quello che si erge sovrano al di là del lago di Tiberiade:

Gesù intanto si ritirò presso il mare con i suoi discepoli e lo seguì molta folla dalla Galilea (…) 13. Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui (Mc 3,7.13).

Secondo la costituzione geografica del lago a forma di cetra perchè “la sua lunghezza massima da nord a sud è di 21 km e la larghezza di 11 km da est a ovest, con una superficie di circa 65 km2 e una profondità massima di circa 45 m” , il monte indicato da Marco, sul quale salì Gesù, potrebbe essere il Ğebel Kancan, la cui vetta raggiunge gli 855 metri, cioè la parte più alta del terreno, la cui base poggia sulla pianura del lago, il quale “ha solo una piccola spiaggia che si allarga a nord-ovest per formare la pianura di Genezaret”.

Gebel in arabo dialettale “denota una montagna o un’elevazione del terreno di altezza considerevole”, venendo a coincidere con la parte più alta del lago di Tiberiade, collocato in terra di Canaan (Palestina).

Molto probabilmente Gesù salì proprio su questa montagna, formatasi dal rialzamento del terreno adiacente al lago di Tiberiade.

Su questo monte Gesù istituisce i dodici apostoli, ai quali conferisce l’onere di predicare e di scacciare i demoni, imponendo loro i nomi.

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Ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perchè avessero il potere di scacciare i demoni. Costituì dunque i dodici.

Simone, al quale impose il nome di Pietro; poi Giacomo di Zebedeo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanerghes, cioè figli del tuono; e Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda Iscariota, quello che poi lo tradì (Mc 3,14-19).

Tra quelli che Gesù chiamò e andarono con lui sul monte, egli ne scelse dodici.

Alla chiamata di Gesù segue la elezione dei dodici.

A ognuno di loro impose il nome, indice dell’incarico e della specifica missione affidati loro da Gesù.

La missione data da Gesù a ognuno di loro procede dal nome che Gesù scelse per ognuno di loro.
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L’istituzione dei dodici sul monte è scandita da questi tre elementi: chiamata, elezione, incarico.

Il Ğebel Kancan viene ad essere il luogo teologico non solo della chiamata degli apostoli, perchè sulla base della loro fede egli scelse quelli e non altri, ma anche della loro specifica missione, riassumibile nell’incarico affidato a loro da Gesù, che è quello di predicare la buona novella e di scacciare gli spiriti maligni.

Su questo monte pertanto, per volontà del Maestro, nasce la chiesa ministeriale, la piccola cerchia ristretta dei fedelissimi di Gesù, perchè solo ai dodici Gesù ha dato il potere di compiere le sue speciali funzioni: quella di predicare e di scacciare i demoni.

Gesù anticipa il mandato vero e proprio degli apostoli che prende piede all’indomani della sua risurrezione (Mc 16,15-20), perchè dopo che risorse Gesù, affidando lo Spirito ai dodici, dette loro l’incarico di predicare in tutto il mondo il kerygma e il potere di togliere i demoni.

Tale monte quindi viene ad essere il luogo di origine della chiesa dei dodici, perchè su questo spuntò questo piccolo germoglio che si estenderà in dimensioni maggiori nella chiesa primitiva, descritta negli Atti degli apostoli (At 1-4).
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Il monte diviene per i discepoli il luogo propizio per la preghiera, della quale si nutre la vita dello spirito:

E subito costrinse i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, a Betsaida, finchè non avesse congedato la folla. Quando li ebbe congedati, andò sul monte a pregare (Mc 6,45-46).

Gesù dimostra di essere unito al Padre nello Spirito, a tal punto che fa precedere la preghiera al Padre prima di salire in barca insieme ai discepoli, per raggiungere l’altra riva vicino a Betsaida.

Forte è il senso del timore di Dio in Gesù, in quanto egli è attaccato al Padre nello Spirito, prediligendo questa sua unica e singolare prerogativa con la preghiera.

Questo monte è il luogo in cui Gesù nobilita la vita dello Spirito mediante la preghiera, iniziando a manifestare il suo singolare timore per Dio; timore che raggiungerà la sua forma più alta nel Getsemani – dove Cristo, ai piedi del monte degli Ulivi, inizia a “patire” per amore del Padre – e il suo culmine sul Golgota con la morte sulla croce.
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Il discorso della “montagna”

Prima di salire sulla “montagna” Gesù si aggirava a Cafarnao, presso il mare della Galilea e precisamente nella zona di Zabulon e Neftali; ambedue posti nella Galilea orientale :

lasciata Nazaret, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zabulon e di Neftali, perchè si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: «Il paese di Zabulon e il paese di Neftali, sulla via del mare, al di là del Giordano, Galilea delle genti; il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grnde luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata» (Mt 4,12-16).

Il territorio di Neftali “confinava a ovest con Aser, a sud con Zabulon e Issacar, e a est era delimitato dal fiume Giordano e dal lago di Tiberiade”, comprendendo al suo interno Tabga e il monte delle beatitudini, posto a ovest rispetto alla città di Cafarnao , ai cui piedi si estendeva il territorio di Zabulon.
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Dalla testimonianza di Marco Gesù, prima di salire sulla montagna, percorreva il mare della Galilea e camminava attorno alla Galilea (Mt 4,18.23).

Da questi dati si può presumere che la “montagna” sulla quale Gesù salì è quella che si erge in prossimità del lago di Tiberiade, alla quale è possibile arrivare, partendo da Tabga, posta proprio ai piedi del cosiddetto “monte delle beatitudini”.

Tabigah è un luogo “vicino al lago di Genezaret, poco più di 3 km a sud-ovest di Cafarnao, a nord di Hirbet el-Oreimah e ai piedi del monte delle Beatitudini”.

Gesù sale su questo monte perchè vede intorno al mare di Galilea molta folla. Egli, salendo sul monte, si allontana dalla folla e, rimanendo solo con i suoi discepoli che gli si avvicinarono, li ammaestra.

La montagna così diviene il luogo di insegnamento di Gesù, perchè lì il maestro insegna loro i contenuti fondamentali della buona novella che egli apporta nel mondo con la sua venuta sulla terra.

La buona novella insegnata da Gesù non è in contraddizione con l’antica, ma in linea di continuità con essa: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti, non sono venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17).

Attorno a questo perno centrale ruota tutto il discorso della montagna che si divide in due parti: la prima parte è incentrata sui concetti fondamentali del nuovo regno di Dio, sui quali si fonda il suo ammaestramento (Mc 5,1-47), mentre la seconda parte è imperniata sulla prassi di vita che, alla luce del suo insegnamento, diviene regola di vita (Mt 6,1-7,28).
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La montagna è quindi il luogo in cui il maestro impartisce ai discepoli pericopi di edificazione spirituale e pratica.

Sulla montagna Gesù insegna tramite le pericopi di edificazione che sono di due tipi:

anagogico-spirituale anagogico-pratico. Il primo ordine di pericopi, di stampo spirituale, è il sapere da Gesù che verranno ricompensati coloro che vivono beati seguendo la vita dello Spirito e la vita pratica della carità, che si estrinseca nell’operare la pace e nell’essere perseguitati a causa della giustizia.

La seconda pericope spirituale è il venire a conoscenza, dalle parole del Maestro, che per essere sale della terra e luce di vita è indispensabile che la luce della verità risplenda nei cuori e nei fatti di coloro che l’hanno ricevuta (Mt 5,13-16).

La terza pericope dello stesso genere, direttamente espressa dalla bocca di Gesù, insegna che Gesù è venuto a dare compimento alla legge.

Egli dimostra questo affermando che in lui si compie la nuova giustizia, riassumibile nella volontà e nella prassi della riconciliazione e dell’amore verso tutti, specialmente verso i nemici, alla stessa stregua del Padre celeste che estende il suo amore verso tutti, indipendentemente dalle mancanze e dai soprusi di ogni singola persona (Mt 5,17-47).

Queste pericopi (le prime) sono al fondamento per la realizzazione di quelle pratiche (delle seconde).

Infatti l’elemosina compiuta in segreto ha più valore di quella compiuta in pubblico, perchè egli realizza la nuova giustizia in quanto è convinto che al fondamento della stessa c’è Cristo: è lui che ricompensa sulla base della fede in Lui.

Per questo motivo l’elemosina, la preghiera e il digiuno vanno fatti non per farsi vedere dagli altri, ma per la fede in Cristo che, vedendo in segreto le opere del benefattore, dà a lui una mercede sovrabbondante (Mt 6,1-6.16.18).
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Per quanto riguarda la preghiera Gesù insegna come pregare Dio padre che è nei cieli, evitando di sprecare vane parole perchè lui sa ciò di cui abbiamo bisogno.

Il perdono è al fondamento della nuova giustizia, il quale sta alla base dell’esercizio di un culto gradito al Padre: il fedele nella preghiera del Padre nostro chiede al Padre di ottenere la remissione dei peccati e il Padre glielo concede, se anche lui ha perdonato le colpe degli altri.

Nella pratica del perdono, della riconciliazione e dell’amore si manifesta la vera fede del credente che ripone fiducia in questi tesori che mai saranno consumati dal tempo (Mc 6,19-21). Il fedele può accumulare questo genere di tesori solo se il suo spirito è predisposto ad accoglierli (Mc 6,22-23).

In tal modo il fedele compie e realizza il regno di Dio e la sua giustizia e, conseguentemente, gli verranno dati dal Padre celeste tutte le cose di cui ha bisogno (Mt 6,25-34). Infatti i veri discepoli sono coloro che compiono fattivamente la volontà del Padre, per cui il fedele è chiamato ad evitare questa serie di comportamenti:

non giudicare, perchè chi giudica verrà a sua volta giudicato nella stessa misura. Non cercare di persuadere persone non intenzionate ad accogliere la buona novella (Mt 7,6).

Coloro che accolgono il regno di Dio e la sua giustizia quando pregano riceveranno dal Padre quanto chiedono (Mt 7,7-11) e non faranno agli altri ciò che non vogliono che sia fatto su di loro (Mt 7,12).

Essi sono coloro che hanno scelto la via del bene che è stretta, perchè pochi vi entrano (Mt 7,13-14).

Questi vengono identificati da Gesù con i veri discepoli che seguono la via accordata loro dal Padre celeste, guardandosi e allontanandosi dai falsi profeti che producono frutti che conducono alla morte (Mt 7,15-20).
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La montagna è quindi il luogo in cui il maestro impartisce ai discepoli pericopi di edificazione spirituale e pratica, improntate all’immagine del nuovo regno: la nuova legge, apportata dal Maestro, diviene cibo di vita eterna se vissuta, secondo le regole pratiche che Gesù insegna ai discepoli nella seconda parte del suo discorso.

Sulla base di ciò queste pericopi di vita pratica divengono copia vivente di quelle spirituali, perchè le prime sono le dirette copie delle seconde, per cui i poveri di spirito, gli afflitti, i miti, i misericordiosi, gli aspiranti della giustizia, i puri di cuore, gli operatori di pace e i perseguitati vengono denominati beati in quanto, sull’orma dei profeti, avranno una grande ricompensa nei cieli; a loro spetta una mercede sovrabbondante (Mt 5,3-12).
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La trasfigurazione

Il monte sul quale avvenne il miracolo della trasfigurazione è molto probabilmente identificato col monte Hermon, dal momento che Gesù, prima di salire sul monte, si aggirava attorno alla città di Cesarea di Filippo in Galilea per annunziare la sua passione.

Questa città è “collocata sulle pendici meridionali del monte Ermon, presso una delle sorgenti del fiume Giordano”.

Il monte Hermon si erge imponente sulla città, essendo la cima più elevata di tutto il Vicino Oriente, svettando di 600 metri su ogni altra parte dei Monti del Libano e dominando sulla pianura di Basan e l’alta valle del Giordano.

Sul monte Gesù si è trasfigurato davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni, divenendo le sue vesti candide come la neve. La potenza del suo Spirito ha trasformato le sue vesti, rendendole candide, simboli del suo corpo e del suo spirito immuni da ogni forma di peccato.

Le vesti attestano che solo Gesù possiede questo singolare e unico privilegio, dettato dalla sua figliolanza divina.

Insieme a Gesù apparvero Elia con Mosè che discorrevano con lui.

Apparvero solo questi due profeti, perchè il primo gode della gloria di Dio in quanto è salito al cielo sopra un carro di fuoco (2Re 2,11) e il secondo in quanto è stato il diretto esecutore della Parola di Dio, in quanto a lui solo Dio dette le tavole della Torah (Es 20,2-18).
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L’episodio della trasfigurazione si collega a quello del battesimo perchè, dalla nube che avvolse nell’ombra i presenti, si sentì una voce che proclamava Gesù essere il figlio prediletto, invitando gli apostoli ad ascoltarlo (Mc 9,7-8).

Questa voce, sulla falsariga del battesimo, proviene dal Padre, il quale esorta gli apostoli ad ascoltare quanto suo figlio prediletto diceva loro.

Il fatto stesso che Gesù parlava con Elia e con Mosè attesta che questi sono i sapienti dell’antica legge, nei quali risplende la sapienza dell’antica legge e dell’antica giustizia: ambedue parlano con Gesù perchè lo precedono, essendo i precursori della sua nuova legge e della sua nuova giustizia.

A tal proposito Lenhardt afferma che questo ascoltatelo – presente anche nei due altri racconti di Marco e Matteo – dimostra che l’elezione di Gesù Cristo è perchè si ascolti colui che è il figlio benamato e, secondo la risonanza con il capitolo 8 del libro dei Proverbi, colui che è, per i cristiani, l’incarnazione della Torà di Israele o, per riprendere la formula tradizionale, della “saggezza di Israele.

Infatti le vesti splendenti sono possedute solo da Gesù e non da Mosè ed Elia, perchè solo in Lui rifulge in pienezza la sapienza del Padre, per cui Mosè ed Elia, con i quali Gesù parlava, sono l’incarnazione della sapienza anticotestamentaria, nei quali sono insiti, per dirla con Giustino, i semi del Logos (Cristo preesistente).

Da questo punto di vista Gesù parlava con Mosè e con Elia perchè, in qualità di eletti, essi rappresentano la sapienza anticotestamentaria, cioè la Torah che non è in contraddizione ma in linea di continuità con la nuova sapienza, incarnatasi in Cristo; nuova sapienza che rappresenta non una cesura con la Torah, ma il compimento della Torah stessa.

A partire da tale quadro ascoltare Gesù secondo il messaggio della trasfigurazione è dunque illuminarsi della sua Torà e della sua pratica.

Così facendo potremo essere veri imitatori di Dio sull’esempio del Cristo.

Cinzia Randazzo

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Una storia vera di David Lynch

Il regista del celebre Elephant man ci regala un piccolo capolavoro, un film delicato e pacato, struggente e tenero, che ci parla di saggezza, costanza, amicizia e affetto.

Un film a tinte tenui, gradevole e dalla trama essenziale: Alvin Straight (interpretato da Richard Farnsworth, nominato all’Oscar come miglior attore protagonista) è un anziano signore che viene a sapere dell’infarto di suo fratello Lyle.
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I due non si parlano da molti anni e Alvin decide di andare a trovare Lyle per riappacificarsi prima che sia troppo tardi.

La situazione di Alvin non è però semplice: Alvin ha problemi di deambulazione dovuti a una brutta caduta, ha una vista debole e complicazioni respiratorie legate al fumo eccessivo.

Vive solo con la figlia, una ragazza fragile, affetta da balbuzie e numerosi altri problemi.
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Alvin, però, cocciuto e determinato, decide di intraprendere tutto solo il lungo viaggio che, dall’Iowa, stato in cui vive, lo condurrà al Wisconsin dal fratello Lyle.

Alvin non ha la patente, a causa del suo deficit visivo, e sceglie perciò come mezzo di trasporto l’unico che sappia guidare: un tagliaerba.
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Il progetto di Alvin, a cui inizialmente nessuno dà credito, si rivelerà un’esperienza unica, un viaggio meraviglioso ricco di incontri speciali.

Alvin conoscerà tante persone disposte ad aiutarlo, rendendo indimenticabile il suo percorso.

Un film tanto essenziale e lineare quanto profondo, una chicca imperdibile, coinvolgente e commovente, da centellinare scena per scena, fino alla bellissima conclusione.

Martina Vecchi

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