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Il linguaggio dei delfini: simile a quello umano?

Cominciamo da una notizia apparsa in rete relativamente di recente, riguardanti le modalità con cui si esprimono i delfini. Vi riporto l’articolo tradotto da Erica Dellago per Coscienza.org:
I delfini “parlano” tra di loro, e per produrre i loro suoni acuti usano lo stesso processo usato dagli esseri umani, secondo una nuova analisi dei risultati di un esperimento degli anni Settanta.

Di recente accade estremamente di frequente che studi etologici precedenti siano rivisti e reinterpretati (ovvio che i progressi tecnologici registrati negli ultimi decenni giochino spesso un ruolo fondamentale nella nuova analisi dei vecchi dati).

I risultati dicono che i delfini in realtà non fischiano come si è a lungo pensato, ma invece si basano sulle vibrazioni dei tessuti nelle loro cavità nasali, analoghe alle nostre corde vocali.

Solo ora gli scienziati stanno comprendendo tutto questo, “perché certamente il suono è simile a un fischio”, ha detto il ricercatore dello studio Peter Madsen dell’Istituto di Bioscienze presso la Aarhus University in Danimarca, aggiungendo che il termine è stato coniato in un articolo pubblicato nel 1949 sulla rivista Science. “Ed è rimasto così da allora”.

La scoperta chiarisce una questione che ha fatto scervellare a lungo gli scienziati: Come possono i delfini produrre fischi identificativi della loro identità sulla superficie dell’acqua e durante le immersioni profonde dove la compressione determina che le onde sonore viaggiano più velocemente e potrebbero cambiare la frequenza di questi suoni.

Per rispondere a questa domanda, Madsen e i suoi colleghi hanno recentemente analizzato le registrazioni digitalizzate di un delfino tursiope maschio di 12 anni (Tursiops truncatus) dal 1977. A quel tempo, i ricercatori avevano fatto respirare al delfino una miscela di elio e ossigeno chiamata Heliox. (Usata dagli esseri umani, la miscela Heliox produce un suono tipo Paperino). La miscela Heliox aveva lo scopo di imitare le condizioni durante una immersione in profondità in quanto provoca un cambiamento nella frequenza. Sia respirando aria sia respirando heliox il delfino maschio, tuttavia, ha continuato a produrre gli stessi fischi, con la stessa frequenza.

Al posto delle corde vocali, i delfini probabilmente usano le vibrazioni dei tessuti nelle loro cavità nasali per produrre i loro “fischi”, che in fin dei conti non sono veri fischi. I ricercatori indicano che responsabili del suono sono strutture nella cavità nasale, chiamate labbra foniche.

I delfini non stanno realmente parlando, però.
“Non significa che parlano come gli esseri umani, solo che comunicano con un suono prodotto nello stesso modo”, ha detto Madsen a LiveScience.

Stephan A. Schwartz dello SchwartzReport sottolinea come nonostante la scoperta, l’arroganza umana sia sempre lì: “Non abbiamo idea di cosa stiano facendo, e quante siano le informazioni che si scambiano. Ma solo che lo fanno. […] Sappiamo così poco del mondo, eppure crediamo di sapere così tanto”.

Schwartz si riferisce alle affermazioni “I delfini non stanno realmente parlando, però” e “Non significa che parlano come gli esseri umani”.
E in effetti, cosa vogliono dire queste due frasi?
“Non significa che parlano come gli esseri umani”. Ovvio che qui non ci si riferisce al fatto che non discutano in inglese o spagnolo di una qualche classe politica marina, si intende che, benché comunichino tramite modalità di produzione dei suoni simili alle nostre, comunque “I delfini non stanno realmente parlando”.
Perché quello lo fanno gli umani. Si dibatte ancora su quali siano le peculiarità fondamentali del parlare umano, qui ci limitiamo a ricordare che tale questione è da sempre uno dei principali discrimini posti tra l’uomo e gli altri animali. (Ne abbiamo parlato di recente nell’articolo su Lacan). Spesso il discrimine si basa sul fatto che agli animali sono attribuite solo reazioni e non risposte, ovvero, solo comunicazioni strettamente “meccaniche”. Ma come dice Schwartz, in realtà non abbiamo una conoscenza tale da permetterci di definire tanto la quantità quanto la qualità delle informazioni che si scambiano i delfini.
Finiamo di leggere l’articolo:

“Gli antenati dei cetacei vivevano sulla terra circa 40 milioni di anni fa e producevano suoni con le corde vocali nella loro laringe”, ha detto Madsen, riferendosi al gruppo di mammiferi a cui appartengono i delfini. “Hanno perso tutto ciò nel corso dell’adattamento ad uno stile di vita completamente acquatico, ma hanno sviluppato la produzione del suono nel naso che funziona come quello delle corde vocali”.

Probabilmente questa facoltà vocale dà ai delfini anche una gamma più ampia di suoni.

“Poiché la frequenza è cambiata cambiando il flusso d’aria e la tensione delle labbra del tessuto connettivo nel naso, il delfino può cambiare frequenza molto più velocemente che se dovesse farlo cambiando i volumi dell’alveolo”, ha detto Madsen. “Ciò significa che vi è un potenziale molto più grande per produrre una gamma di suoni più ampia e aumentare quindi il passaggio delle informazioni”.

I dettagli della ricerca sono pubblicati questa settimana sulla rivista Biology Letters. [Purtroppo non sono riuscito a reperire altre informazioni].

Quindi i delfini comunicano fra loro tramite un sistema estremamente complesso, simile a quello umano. Non tramite un fischio ma attraverso vibrazioni delle loro “labbra foniche”.
Ma attenzione ai verbi che usiamo: “comunicare” è un verbo neutro (definiamolo così), perciò affermare che i delfini comunicano fra loro in modi di cui solo ora cominciamo a comprendere la complessità, è corretto.

Dire: i delfini parlano tra loro invece no. Parlare è un termine problematico, perché in genere appannaggio solo degli esseri umani. Meglio che i delfini comunichino fra loro, anziché parlare, perché se parlassero noi umani potremmo correre il rischio di sentirli troppo vicini a noi.

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Soffri nel guardare un prelievo? Guarda che ti passa!

È abitudine e consuetudine per molti quello di girarsi evitando di puntare gli occhi sulle siringhe.In questo modo si crede di provare meno dolore proprio perché non si guarda, ma un recente studio afferma esattamente il contrario. Secondo questa originale ricerca il risultato risulta infatti in contro tendenza, rispetto a questa diffusa abitudine. Sono gli stessi infermieri poi a consigliare di girarsi quando si effettua un prelievo del sangue, soprattutto nel caso in cui si sia sensibili all’argomento. La ricerca riguarda uno studio portato a termine dall’Università di Milano Bicocca e dell’University College di Londra, la notizia è stata successivamente pubblicata su Psychological Science (una rivista che si occupa appunto di scienza). Questa ricerca ha dimostrato che guardare il nostro corpo nel momento in cui si vive un’esperienza dolorosa porta ad un’azione antidolorifica.

La percezione in tutto questo riveste un ruolo fondamentale, osservare e percepire quello che sta accadendo addirittura fa sentire meno dolore. Una notizia che certamente sconcerta e che fa tremare soprattutto i più sensibili, quelli che alla sola visione di uno di quei filtri per siringa, già tremano al pensiero. Ma ecco i dati dell’esperimento condotto: è stato portato avanti da Flavia Mancini (dottoranda di psicologia presso l’ateneo di Milano) nei laboratori di Londra con l’ausilio di 18 volontari. I volontari tutti sani al momento del test, è stato testato quanto caldo deve essere un oggetto affinché venisse percepito come doloroso, tutto questo in diverse condizioni.

I ricercatori hanno quindi sondato e capito se si verificavano cambiamenti per quanto riguarda la soglia del dolore percepito in relazione al fatto che vi fosse o meno il contatto visivo con quello che stava accadendo. In pratica verificando le reazioni del partecipante guardando o meno la parte dolorante, e inoltre ingrandendo o diminuendo l’area visiva con l’aiuto di uno specchio. Si è notato e si può notare anche osservando il video stesso, che nel momento in cui i volontari del test guardavano la parte dolorante, in questo caso la mano, lo stimolo doveva essere di 3 gradi centigradi superiore (quindi più caldo) rispetto a quando questi non guardavano direttamente la ferita ma altrove. Si è osservato inoltre che aumentando le dimensioni della parte stimolata, il dolore che veniva percepito diminuiva, al contrario meno i partecipanti riuscivano a vedere la propria mano maggiore era il dolore che il partecipante percepiva, questo era proprio collegato in base alla grandezza naturale dell’oggetto stesso che veniva usato.

Questo studio conferma ancora una volta l’importanza dei nostri sistemi sensoriali e percettivi, in particolare alla vista e quindi della relazione tra questi e il dolore e usarlo anche nei macchinari medici quali la tac o in altri nuovi macchinari quali gli accessori gascromatografia. Questa importante scoperta potrà essere applicata anche in altri settori e soprattutto in campo clinico e applicativo, come confermano gli stessi psicologi e studiosi del campo.

Articolo a cura di Elena Tondello

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