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Quanta parte del tuo tempo lavorativo dedichi alla formazione e all’aggiornamento?

Per capire quanta parte del loro tempo lavorativo gli italiani dedicano alla formazione e all’aggiornamento, abbiamo lanciato un sondaggio ai cybernauti nelle pagine del nostro magazine online www.profumodicarriera.it, chiedendo loro: “Quanta parte del tuo tempo lavorativo dedichi alla formazione e all’aggiornamento?” Il 40% dei votanti ha risposto: “Meno ore di quante vorrei”. A questi, s’aggiunge un altro 8%, che sostiene di poter dedicare alla formazione e all’aggiornamento “pochissime ore”. Quindi quasi il 50% dei votanti (48% per l’esattezza) si sente insoddisfatto rispetto alla propria formazione continua. Gli altri votanti si sono espressi così: il 23% di loro ritiene di dedicare all’aggiornamento “un numero di ore sufficienti per mantenersi competitivi nel mercato del lavoro”; mentre il restante 29% asserisce di spendervi “moltissime ore, perché la funzione ricoperta lo richiede”.

I dati: Dando uno sguardo ai dati mondiali raccolti dall’Istat e da altri centri di ricerche statistiche, scopriamo che alla fine del 2008, il 29% dei lavoratori italiani ha partecipato ai corsi di formazione e di aggiornamento continui, contro il 33% della media dei lavoratori dell’Unione Europea. La quota degli over 50 coinvolti nella formazione continua supera raramente il 30% dei partecipanti. La formazione continua in Italia è uno strumento ancora poco utilizzato, soprattutto rispetto al resto dell’Europa. È questo il dato che emerge dal Rapporto annuale sulla formazione continua presentato dal ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, realizzato dall’Isfol.
I dati parlano chiaro: la media europea delle imprese che hanno offerto formazione ai propri dipendenti è pari al 60%, mentre nel nostro Paese raggiunge appena il 32%. Numeri che ci collocano al terz’ultimo posto nell’Europa allargata. Questo risultato è determinato in prevalenza dall’assetto che il sistema produttivo nazionale assume in alcuni settori tradizionali – tessile, turismo, commercio al dettaglio – con imprese piccole e poco innovative. Il dato è però in crescita rispetto al 1999, quando il nostro valore sfiorava il 24%. Meno profonda la distanza che ci separa dal resto dell’Europa quando si osservano altri indicatori. In Italia il 29% dei dipendenti (2,5 milioni) è stato coinvolto in corsi di formazione, contro la media Ue del 33%. Nel nostro Paese la durata media dei corsi è leggermente inferiore rispetto a quella comunitaria: 26 ore contro 27, mentre sono più alti i costi sostenuti per partecipante (fonte: Labitalia/Adn).
L’azienda, quando stipula un contratto di lavoro, è talmente sommersa da costi e oneri che tutto – anche la formazione dei propri dipendenti – passa in secondo piano. Come rilevavamo, l’Italia è un Paese che non investe abbastanza nella formazione. Terz’ultimi, in Europa, con un misero 32% di imprese che realizzano percorsi di formazione in itinere. Dopo di noi ci sono solo Bulgaria e Grecia; tutti gli altri Paesi svolgono più formazione in itinere. Prima di noi ci sono anche Polonia, Lituania e Romania.
Eppure le Società e gli Enti che erogano formazione sono aumentati, passando dal 24% al 32%. Oltre che nella crisi economica mondiale, il motivo di questo stop nella formazione è probabilmente da ricercare nel costo orario per l’aggiornamento in itinere. Tale costo è infatti uno dei più alti d’Europa, circa 58 euro contro la media dell’Unione Europea di 52 euro. Se osserviamo i soli corsi di formazione il dato aumenta leggermente, ma restiamo lontani dalla media europea.

Le opinioni: «Oggi – interviene Andrea Di Lenna, direttore di Performando, società di consulenza e formazione manageriale – complice la crisi economica, le risorse che le aziende possono investire nella formazione sono davvero poche. Il dipendente di un’azienda dedica appena l’1% della vita professionale complessiva alla formazione e all’aggiornamento. Il periodo non aiuta e ogni professionista deve arrangiarsi come può. Ecco allora che in questo “momento di magra”, possono funzionare bene i corsi di aggiornamento di poche ore su aspetti tecnici e operativi, organizzati solitamente dalle Associazioni di Categoria. A questi possiamo aggiungere qualche buon libro, la lettura di riviste specializzate e il ricorso a internet».
Secondo Sonia Russo, psicologa e formatrice in TWT, le aziende per uscire dalla crisi devono prestare attenzione al cambiamento e costruirsi una mentalità commerciale. «La crisi è evento critico di un cambiamento in atto. Le aziende devono imparare a conoscerlo e a gestirlo, e costruire al loro interno una cultura del cambiamento. Per farlo occorre focalizzarsi su un presupposto: il cambiamento è costante. A partire dai dati della produzione e dalla condivisione di idee, proposte e pensieri, ci si deve costruire una modalità di gestione del cambiamento. Per aumentare il fatturato serve una nuova mentalità aperta alle sfide e alle novità, una mentalità commerciale. Non è possibile affrontare la crisi “chiudendosi”, “eliminando”; bensì è necessario aprirsi al cambiamento, al nuovo».
Carlo Ortolani, direttore di Cineas, ritiene che sia necessario investire nella formazione seguendo il modello francese. «In Francia, la scelta del Governo è stata quella di puntare con decisione sulla formazione universitaria e sull’aggiornamento professionale. Lo stato francese ha finanziato un progetto che prevede lo stanziamento di 10 miliardi di euro in 5 anni, per fornire ai 10 migliori campus universitari del Paese gli strumenti necessari per affrontare le sfide scientifiche del XXI secolo. Questo vuol dire che ogni polo universitario, selezionato nella rosa dei centri d’eccellenza, riceverà 400 miliardi di vecchie lire l’anno». Una formula per l’apprendimento continuo che Ortolani ha proposto come modello virtuoso ed efficace anche qui da noi. In Francia l’iniziativa è stata voluta da Dominique Villepin (Primo Ministro nel 2005) e a luglio 2008 il ministro dell’Università e della Ricerca Valérie Pécresse, ha reso noti i nomi degli atenei selezionati sulla base dei seguenti criteri: integrazione con la ricerca di eccellenza esistente, riqualificazione del patrimonio universitario e urbanistico, sviluppo complessivo della ricerca e della regione, integrazione urbana della vita universitaria.
Oltre all’investimento nella formazione accademica, in Francia viene previsto per legge l’aggiornamento continuo per tutti i lavoratori. «Il DIF, il Droit Individuel à la formation – ha concluso Ortolani – è stato introdotto dalla legge 4 maggio del 2004, e implica che tutti i lavoratori (con una minima anzianità di servizio), in qualunque settore, dedichino da 20 a 120 ore all’anno all’aggiornamento professionale. Inoltre, è prevista per legge la possibilità di ottenere un congedo individuale di formazione di un anno. Dopo aver maturato un periodo di carriera significativo, il lavoratore può ottenere un riconoscimento dell’esperienza professionale acquisita».

 

Cristiana Boggian
YOUS Agenzia per il Lavoro S.p.A.
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35131 Padova Italia
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Rossano Galtarossa – Vincere con la testa

Nello sport così come in azienda, non si vince solo con i muscoli, ma anche e soprattutto con la testa. Sono la motivazione, la forza di volontà, la tenacia, la determinazione, che spingono un atleta ad allenarsi. E a superare – ogni giorno sempre un po’ di più – i propri limiti fisici, per ottenere una prestazione ottimale. Anche in azienda il professionista deve credere nel proprio lavoro, nell’efficacia delle sue competenze, deve sentirsi parte integrante del “sistema impresa” e deve voler crescere, per riuscire a dare sempre il massimo di sé. Dietro a tutto ciò, c’è la testa, la mente. Non per niente, l’allenamento di uno sportivo si struttura secondo tre ambiti: fisico, emozionale e mentale. E l’allenamento di un uomo d’azienda? Quanta parte occupa della giornata la fase dell’allenamento? Qui si scopre un paradosso. Il parallelismo tra il mondo sportivo e quello aziendale ha una aderenza pressoché totale per diversi aspetti. Pensiamo ad esempio al team building, alla leadership, alla gestione delle emozioni e dello stress, alla motivazione. Per quanto concerne l’allenamento invece, balza agli occhi una divergenza spaventosa. Mentre lo sportivo dedica all’allenamento almeno il 95% del tempo professionale, il dipendente di un’azienda appena l’1% della vita professionale complessiva. Ecco allora che campioni plurimedagliati, come Rossano Galtarossa, possono assumere il ruolo di coach aziendali, portare la loro esperienza di sportivi a una platea di professionisti, e attivare così i noti meccanismi del benchmarking.

Rossano Galtarossa ha indossato la maglia azzurra per 18 anni, aggiudicandosi 4 medaglie olimpiche e altre 10 ai Campionati Mondiali. E’ l’unico atleta ad aver vinto per cinque anni consecutivi il Campionato Italiano nella specialità “Singolo Senior”. Attualmente è il canottiere azzurro con il maggior numero di medaglie olimpiche e l’unico atleta padovano ad aver partecipato a cinque Olimpiadi.

Facendo riferimento alla sua esperienza personale, ci può spiegare che cosa è l’allenamento? In cosa consiste? E quanta parte del suo tempo occupa?
Per uno sportivo l’allenamento è fondamentale. Occupa il 95% del tempo riservato allo sport e si scansiona in allenamento fisico, emozionale e mentale. Ovviamente la parte più significativa è dedicata all’allenamento fisico, imprescindibile per un atleta. Così come, avere delle conoscenze e competenze tecniche, è fondamentale per il professionista. In situazioni di affaticamento il corpo risponde attivando delle spie (accelerazione del battito cardiaco, acido lattico) che mettono in allerta il soggetto che si sottopone allo stress, suggerendogli di fermarsi. Queste spie, se accese, vengono infatti percepite come indicatori di una situazione di pericolo. L’allenamento fisico serve per andare oltre il limite che il corpo erige, ogni giorno sempre un po’ di più. Abituando il corpo a spostare in avanti la percezione dell’affaticamento. E qui subentra l’allenamento emotivo, che aiuta a trovare la scintilla che spinge oltre il limite fisico. L’allenamento insegna al cervello che lo stato in cui si trova lo sportivo non è una situazione di pericolo. Si tratta di un processo difficile e doloroso, che non è possibile portare avanti se non si ha una forte spinta emotiva. Ma, se da un lato le emozioni ti spingono a dare di più, dall’altro possono ingenerare ansie in fase di gara, nelle prove finali. E qui subentra l’allenamento mentale che aiuta a vincere le paure generate dalla pressione psicologica. L’allenamento non deve mai essere “comodo”, altrimenti l’atleta involve e la regressione è dietro l’angolo. Per spingere sempre sull’acceleratore è necessario trovare uno stimolo. L’allenamento mentale serve a questo. L’atleta deve quindi porsi la domanda: “Perché lo sto facendo?” e tenere sempre a mente quale obiettivo vuole raggiungere.

L’allenamento cambia con l’approssimarsi della gara. In quale modo? Come riesce a tenere sotto controllo l’ansia e lo stress che crescono man mano che il giorno della competizione si avvicina?
Con l’avvicinarsi della gara, diminuiscono sensibilmente le ore dedicate all’allenamento fisico, per permettere al corpo, dopo ritmi estenuanti, il pieno recupero delle forze. Ho imparato sulla mia pelle, che le ore vuote che precedono le gare sono pericolosissime. La pressione psicologica sale per l’avvicinarsi della prova e la mente, non occupata dall’allenamento, batte come un tarlo sulle paure e le ansie. Per evitarlo e tenere impegnata la testa, in queste ore io mi faccio accompagnare dai libri. Leggo romanzi d’avventura e storici. Non è per nulla facile gestire le emozioni e prepararsi mentalmente alla gara. All’Olimpiade di Pechino c’erano molte aspettative su di me. E questa pressione psicologica poteva diventare dannosa. Allora ho cercato di lavorare dentro di me, per capovolgere l’ansia e trasformarla in un’emozione positiva. Mi sono detto: se l’aspettativa su di me è grande, significa che la gente è convinta che io sono in grado di ottenere un buon risultato, e crede questo perchè io effettivamente ho delle potenzialità.

E sulla “motivazione” invece, cosa ci può dire? Quale è la motivazione che la spinge a sacrificarsi in vista di un obiettivo?
Ho un carattere competitivo e trovo gratificazione nel dimostrarmi di essere bravo. Credere in sé stessi porta ad osare un po’ di più. Osando si conseguono risultati e questi ultimi a loro volta fortificano la convinzione di essere bravi. Si tratta di un circolo virtuoso. Se un atleta matura la consapevolezza di essere bravo, subito dopo se ne rendono conto anche gli altri.
Io ritengo che più è difficile l’obiettivo da raggiungere, più si trova gratificazione nel conseguirlo. Ma è anche altrettanto vero che, per lanciarsi in una impresa impegnativa, bisogna trovare una forte motivazione e gratificazione. In quel che faccio io metto passione ed esuberanza, corroborate dai risultati finora ottenuti. Ho un carattere competitivo, che mi spinge a cercare la gratificazione.

 

Eppure può capitare che i risultati sperati non arrivino, nonostante la forte motivazione e i sacrifici richiesti dal duro regime degli allenamenti …
Nonostante l’impegno, non è matematico arrivare infatti! Capita spesso che equipaggi che si sono qualificati primi, poi in gara non salgano nemmeno sul podio. Lì, oltre alla preparazione atletica, giocano anche altre componenti: l’emotività, lo stato delle attrezzature, l’armonia dell’equipaggio, la preparazione degli avversari.
All’inizio della carriera sportiva, non bisogna bruciare le tappe, ma lasciarsi guidare e consigliare da un buon coach. E “rubare” più che si può dall’esperienza altrui, con umiltà e voglia di crescere. Negli allenamenti e in gara, secondo me, l’importante è dare sempre il massimo, per non avere rimpianti davanti ai risultati ottenuti. Si può essere “vincitori” anche se anche non si sale il primo gradino del podio, ma ci si qualifica secondi o terzi. L’importante è non avere rimpianti. Ma del concetto di “vittoria” parleremo un’altra volta.

 

Cristiana Boggian
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Quante aziende cambia in media una persona nella propria vita lavorativa?

C’era una volta il “posto fisso”, quello che tutti trovavano subito dopo aver terminato gli studi e che – di buon grado o per senso del dovere – vedeva tutte le stagioni della vita di una persona, accompagnandola dalla giovinezza all’età adulta, fino a portarla poi alla pensione. Non stiamo parlando di fatti che accadevano nell’era mesozoica, né stiamo leggendo l’incipit di una fiaba per bambini. Succedeva appena trent’anni fa …
Oggi, siamo entrati in un’altra era geologica dove impera la “flessibilità” e, per ambizione o per necessità, tutti siamo spinti a una certa “motilità” e “mobilità”. Come tante api sui fiori, saltelliamo da una azienda all’altra, tentando di lasciare un’impronta positiva del nostro “esserci stati”. Ma ancor oggi, nascosti fra la moltitudine, esistono professionisti che hanno stretto con il loro “primo” lavoro un vincolo ancor più indissolubile del matrimonio (specie oggigiorno)!

Ma quante aziende cambia in media una persona nella propria vita lavorativa? Ce lo siamo chiesti qui, tra le mura della redazione di Profumo di Carriera, e abbiamo voluto girare la domanda a voi.

Ebbene: “Quante aziende hai cambiato o presumi di cambiare nella tua vita lavorativa?” Il 42% dei votanti, basandosi sulla propria personale esperienza, risponde dalle 5 alle 7 aziende. A quest’ampia fetta di popolazione s’aggiunge un altro 34%, che dichiara d’aver cambiato dalle 3 alle 5 aziende nella propria vita lavorativa. Il 16% dei votanti addirittura sostiene d’aver già superato le 7 aziende, o che presto taglierà il traguardo. Mentre invece, dall’altra parte dell’orizzonte, solo l’8% delle persone sostiene che nella propria vita professionale rimarrà nel range da 1 a 3 aziende.
Per quanto si tratti di statistiche, ottenute da una popolazione ristretta di votanti, sembrano fotografare bene la realtà di oggi. Ma, per non restare nella superficie, abbiamo cercato di capire i motivi che spingono le persone a cambiare spesso lavoro o, viceversa, a rimanere nella stessa azienda per tutta la vita. Per questo abbiamo realizzato delle interviste a campione. E riportiamo le più significative.
«Lavoro in Acciaierie Valbruna dal 1977, da quando avevo appena 19 anni». A parlare è Cesare Fasolo, che oggi ricopre il ruolo di responsabile Formazione e Sviluppo in Acciaierie Valbruna. «Da 32 anni nella stessa azienda, con funzioni e responsabilità che via via si sono accresciute nel tempo. Lei mi chiede il perchè della mia scelta? Ebbene: sono rimasto perchè professionalmente mi sento soddisfatto qui in Valbruna. Ho la fortuna di lavorare in un’azienda che è in costante sviluppo. Negli anni l’ho vista crescere, evolversi, internazionalizzarsi, aumentare il numero di prodotti realizzati e le filiali. E’ una azienda che ha compiuto anche scelte pionieristiche. Spesso, si decide di cambiare lavoro quando vengono meno gli stimoli, a causa della staticità dell’azienda. Il professionista in questo caso va in asfissia, soffre. Ma in Acciaierie Valbruna i cambiamenti sono molto intensi, e non c’è mai stato un attimo di noia».
Diametralmente opposta l’esperienza professionale di Giuseppe Duso, rientrato nel settore delle costruzioni dopo un’esperienza variegata in una quindicina di aziende molto differenti fra loro. Quasi quarantasettenne, con 28 anni di lavoro alle spalle, Giuseppe Duso vanta: 5 anni nel settore della chimica per le costruzioni; 2 nelle imprese di costruzioni; 2 in aziende di costruzioni nel settore degli impianti di depurazione e altri 2 anni, sempre in aziende di costruzioni, ma nel settore delle strade; 3 anni e ½ in una impresa che lavorava nelle infrastrutture (dighe, gallerie); 1 anno tra Olanda e Germania negli elettrodotti; 5 anni in Omnitel ad occuparsi di start-up; altri 2 a Roma nel settore delle infrastrutture telefoniche; 4 anni nell’elettronica e nell’elettromeccanica; e infine da 2 anni è rientrato nel settore delle costruzioni, con un grosso gruppo di Treviso. Gli abbiamo chiesto i motivi che stanno dietro queste scelte. «Alla base del cambiamento – ci spiega Giuseppe Duso – c’è la voglia di fare cose nuove, di mettersi alla prova. In secondo luogo, quando hai individuato il lavoro che ti piace, che fa per te, cerchi di essere retribuito in modo adeguato. Cambi per andare in meglio. Chiaro che ogni volta che si cambia, si rischia di mettere a repentaglio la propria sfera emotiva e l’equilibrio familiare. Io sono fortunato: ho trovato una compagna d’avventure intelligente, che è diventata mia moglie».

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Cristiana Boggian   –   Redazione YOUS

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